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Numero 42 | 26 settembre 2025

Internati Militari Italiani in Germania. 600mila scelte antifasciste.

Internati Militari Italiani in Germania. 600mila scelte antifasciste.


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Ricorre in questi giorni la Giornata dedicata ai militari internati dall’esercito tedesco dopo l’armistizio di Cassibile, annunciato dal Generale Badoglio l’8 settembre 1943. L’ha istituita la legge n. 6 del 13 gennaio 2025 votata all’unanimità dal Parlamento italiano e riconosce il valore morale del rifiuto dei militari italiani prigionieri di collaborare con l’esercito di Hitler e con la Repubblica di Salò di Mussolini. In realtà il percorso è stato molto lungo. Infatti nell’immediato dopoguerra furono fondate numerose associazioni di reduci dai campi di internamento militare; in genere si occupavano dell’assistenza e dei bisogni materiali senza toccare altri temi, ancora aperti e molto problematici per la realtà politica e sociale italiana ancora nel pieno marasma del dopoguerra, e sottolineavano la propria apoliticità. Dalle istituzioni venivano in seguito i primi riconoscimenti generici, “per la prigionia in Germania”, senza mai nominare nazismo e fascismo limitandosi quindi all’aspetto militare o generalmente patriottico. Per gli internati militari la svolta avvenne con la legge  1.12.77 n. 907, primo firmatario l’ex internato codroipese senatore Onorio Cengarle e  i senatori Saragat, Nenni, Terracini, Alberini, Bartolomei e Forma, con il “Conferimento del distintivo di onore di « volontario della libertà » al personale militare deportato nei lager che rifiutò la liberazione per non servire l’invasore tedesco e la Repubblica Sociale durante la Resistenza” …“Ai militari deportati nei campi di concentramento tedeschi dopo il’8 settembre 1943, (denominati ex internati militari in Germania) che rinunciarono alla liberazione e, non collaborando comunque volontariamente né con i tedeschi né con i fascisti, contribuirono alla lotta della Resistenza, è estesa la concessione del distintivo di onore dei Volontari della Libertà, istituto con il decreto luogotenenziale del 3 maggio 1945, n. 350.   

La memoria della prigionia

“Ecco, stasera non dormo! Mi hai fatto tornare alla mente cose di cui non ho mai voluto parlare volentieri; ormai è tutto finito e lontano ed a nessuno importa di quello che è stato” Così concludeva il suo accorato e sofferto racconto Angelo Asquini di Varmo, classe 1923, alpino in Grecia ed internato in Germania.

La vicenda degli Internati militari italiani è una di quelle che la memoria collettiva del nostro Paese ha stentato a fare sua, lasciandola ai ricordi personali dei protagonisti ed al loro ambito familiare. I motivi sono molteplici ma fondamentalmente collegati con la difficoltà di fare i conti con la propria Storia che ancora oggi è presente nella coscienza collettiva italiana e di assumere le responsabilità del Paese nella seconda guerra mondiale. Già al loro ritorno i reduci si trovarono in una situazione critica: erano i testimoni scomodi di una sconfitta militare, ma anche politica e morale che costringeva molti italiani ad un ripensamento e chiamava in causa quella parte del Paese che la guerra l’aveva voluta seguendo Mussolini ed Hitler. Nelle nostre piccole comunità poi, il sostegno al fascismo ed alla guerra aveva nomi e cognomi e si poteva giungere ad una resa dei conti problematica per l’assetto sociale e politico e che non si era in grado di affrontare se non al prezzo di ulteriori conflitti; pertanto prevalse la scelta di accantonare tutto. D’altra parte le distruzioni materiali, le incombenze familiari e personali, il disorientamento politico prodotti dalla guerra inducevano ognuno, pur per motivi diversi, se non contrapposti, a voler dimenticare e guardare avanti: questo è il sentire che emerge in tutti i racconti su quel periodo nei nostri paesi. Gli ex internati stessi non parlavano volentieri di quella esperienza umiliante, dei drammi e tragedie che essi e le loro famiglie avevano vissuto. Ancora dopo tanti anni, per loro era ancora difficile trovare le parole per raccontare le vicende più drammatiche o tragiche, per descrivere i sentimenti e poterli condividere; parole che sembrano inadeguate ed insufficienti con il dubbio frustrante di non essere capiti. Negli anni a seguire la loro vicenda rimase accantonata e quei momenti venivano rievocati, negli aspetti epici ed aneddotici in ambito familiare e tra i compagni di prigionia, negli aspetti più tragici dopo qualche bicchiere in più ed in situazioni di sofferenza.

Nonostante la legge del ’77 che riconosceva nel loro NO un atto di resistenza a Mussolini ed Hitler, la loro vicenda è stata trattata a fondo da questo punto di vista dalla storiografia solo in tempi successivi. Ed è di pochi giorni fa il riconoscimento esplicito ribadito dal Presidente Mattarella in questo senso. La Resistenza stessa, nel dopoguerra, aveva sottovalutato il valore del loro gesto rispetto alla guerra di Liberazione cui si dava precedenza in effetti per le sue implicanze politiche dirette ed il suo riflesso nella Costituzione. In realtà, la posizione assunta dagli I.M.I. ebbe nella maggior parte dei casi le caratteristiche di un gesto morale, prepolitico. E non avrebbe potuto essere che così, per giovani cresciuti nella dittatura e quindi senza una coscienza critica che nascesse dall’esperienza di un confronto democratico. La scelta del NO era stata prevalentemente causata quindi dall’esperienza negativa di una guerra di aggressione, fatta con scarsi mezzi e comandi inadeguati, in un umiliante rapporto subordinato con l’esercito tedesco e persa; combattendo spesso contro civili che avevano solo il torto di difendere la propria terra come in Grecia ed in Iugoslavia. Questo per la maggior parte della truppa. Gli ufficiali, come anche molti Carabinieri, erano motivati dal giuramento di fedeltà al re e non a Mussolini.

Le fonti documentali 

Scomparsi ormai quasi tutti i protagonisti, ciò che resta delle storie degli internati militari sono fotografie, oggetti, lettere, custoditi ancora nelle famiglie che hanno conservato memoria ma anche negli archivi, dove Storia e Memoria possono incontrarsi.                                                                                                                                         

Molte sono le informazioni che si possono ancora raccogliere nelle famiglie, nell’Archivio di Stato di Udine, negli archivi Comunali e negli archivi del C.D.E. (ex Distretto Militare) di Udine; al rientro in Patria i militari erano tenuti infatti a fornire documentazione della propria prigionia per avere riconosciuti diritti di legge e trattamento economico e ciò ci permette oggi di ricostruire alcuni tratti delle loro storie. Si sono recuperati così: lettere scritte o ricevute; certificati di identità e tesserini personali forniti ai militari dai campi di internamento o dalle ditte presso cui essi avevano lavorato; schede di rimpatrio compilate negli appositi centri di accoglienza ai confini.

Erano discriminanti, ai fini del riconoscimento dello status di internato, l’adesione eventuale all’esercito tedesco o alle forze della R.S.I. e la data dichiarata del passaggio a lavoratore civile; questa doveva essere successiva al 4 settembre ‘44, giorno in cui questo era peraltro avvenuto d’ufficio per volontà tedesca.  La commissione, verificati i requisiti, esprimeva infine un parere favorevole o meno al riconoscimento dei diritti economici ed amministrativi previsti. Le competenze economiche maturate dalla data di prigionia in poi sarebbero state calcolate, conguagliate e poi gradualmente liquidate nel corso degli anni successivi.

Nel 2022 l’ANPI provinciale di Udine, con la collaborazione del Comune di Udine ed il sostegno della Regione, ha prodotto una mostra che da allora circola regolarmente nei Comuni del Friuli e della Carnia. Lo studio di ricerca condotto dal compianto prof. Flavio Fabbroni riguarda la vecchia Provincia di Udine che un tempo comprendeva anche Pordenone e segue in ordine cronologico lo svolgersi della guerra e della prigionia, fino al ritorno dei militari nelle loro famiglie. Vi sono anche elencati i nomi dei militari morti in prigionia e negli eventi armistiziali. In appendice a questa mostra sono state presentate anche mostre centrate sui comuni che la ospitano. In quella occasione è nata l’iniziativa di istituire presso l’Archivio Storico dell’ANPI provinciale un Fondo i.m.i. che raccoglie documenti, foto, memorie, diari ed oggetti raccolti nelle famiglie e negli archivi. Finora sono alcune centinaia i fascicoli raccolti che riguardano i militari, gestiti da personale dedicato e che al più presto potranno essere messi in rete. Finora è stato condotto un lavoro sistematico di ricerca sui Comuni di Aquileia, Comeglians, Ovaro, Varmo, Bertiolo, Buttrio; è in corso la ricerca in altri Comuni.

Le lettere, le memorie

I militari avevano la possibilità di comunicare con le famiglie per il tramite di uno specifico servizio postale tedesco che forniva anche il materiale per scrivere e curava il recapito di pacchi personali inviati ai prigionieri; ciò avveniva però con limitazioni e scarsa regolarità e non in tutti i campi. Nelle loro lettere alla famiglia i giovani non parlavano della fame, sofferenze o vessazioni: non volevano che a casa si preoccupassero e quindi dichiaravano buona salute e, se non di benessere, dichiaravano una vita “passabile”. Anche quando chiedevano alle famiglie l’invio di tabacco, vestiario o cibo, raramente ne facevano capire esplicitamente la necessità estrema per la sopravvivenza.

Nelle memorie scritte al ritorno, invece, compaiono spesso citate le vessazioni e le violenze dei tedeschi e le pressioni anche di alcuni ufficiali italiani collaborazionisti. I maltrattamenti subiti erano sistematici, con la riduzione del cibo o il rifiuto dell’assistenza medica ai numerosi malati: all’inizio ciò era per  costringere gli internati ad aderire all’esercito tedesco o alla R.S.I, in seguito per indurli a firmare il passaggio da prigionieri a lavoratori civili; era però un metodo generale per mantenerli in soggezione ed in condizioni di debolezza, anche fisica (in effetti molti degli internati, quando vennero liberati avevano perso circa il 25% del peso corporeo). Così come denunciavano alla Commissione le violenze ed i maltrattamenti, i militari rimarcavano come punto di orgoglio il fatto di non aver ceduto, nonostante tutto. Ed in effetti, alla fine, Hitler fu costretto a cambiare d’ufficio lo status dei prigionieri in quello di lavoratori civili, senza il loro consenso.

La liberazione e il ritorno                                                                                                                           

I reduci rientrarono gradualmente nel corso dell’estate-autunno del 45 quando l’euforia per la fine della guerra era passata. Qualcuno tornò anche più tardi, con l’assistenza di Croce Rossa o degli Alleati e del Vaticano, ma anche con i più diversi mezzi di fortuna; talvolta facendo buona parte del percorso a piedi. Ci vollero mesi, dato lo stato disastroso delle comunicazioni stradali e ferroviarie bombardati e la enorme quantità di persone che in quel periodo dovevano essere gestite dagli Alleati in tutta Europa, dal punto di vista militare, amministrativo, umanitario e sanitario.

Ma il loro ritorno immediato in massa era considerato problematico anche politicamente e socialmente dagli Alleati come dalle Istituzioni Italiane. Erano giovani da assistere e ricollocare nella società, in una situazione di disordine e precarietà politica, sociale ed economica generale. Molti di loro dopo qualche anno si troveranno nelle fabbriche o nell’inferno delle miniere francesi e belghe, a fianco dei nazisti fuggiaschi dal loro Paese che li disprezzavano ancora come traditori, e di balcanici che riconoscevano in loro i nemici che avevano invaso il loro Paese e bruciato le loro case, come era spesso avvenuto.

adriano bertolini
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Componente della presidenza Provinciale ANPI di Udine. Autore di ricerche e letture sceniche sul Codroipese nella Resistenza; coautore, con Rosanna Boratto, di "L'Altra Resistenza" Quaderni della Resistenza per la Scuola 2, per ANPI provinciale di Udine; ha collaborato alla mostra "600.000 NO ad Hitler e Mussolini" per ANPI Udine.

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