
Beneciani, gente di frontiera
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La storia e la memoria sono da molto tempo oggetto di un dibattito pubblico e politico serrato.
Se la prima è il racconto documentato degli eventi, la seconda è il modo in cui le persone li ricordano e li interpretano.
Molto spesso le cose non collimano e possono confliggere, oppure si possono avere delle convergenze solo parziali.
Il libro di Loredana Alajmo “Gente di frontiera” – Infinito Edizioni 2024 – non si pone questo problema e costruisce la sua narrazione assemblando fonti orali da lei raccolte in forma anonima, documenti fotografati in archivio e sommarie descrizioni dei contesti storici di uomini e donne vissuti durante il ventennio fascista, la seconda guerra mondiale e il periodo a ridosso della fine del conflitto, nel territorio delle Valli del Natisone, la Benecìa.
Sono testimonianze e ricostruzioni che si inseriscono appieno nelle complicate vicende del confine orientale, di cui spesso si sente parlare, non sempre a proposito.
Il fascismo ai confini
Sono molto interessanti le testimonianze e i documenti che mettono in luce come da parte della popolazione, sottoposta alla dura politica di snazionalizzazione del regime fascista, l’elemento culturale più forte al quale aggrapparsi è quello linguistico.
Pertanto, il Regime, dopo aver provveduto a impiegare nelle scuole insegnanti fedeli al Partito che non transigono sull’uso esclusivo dell’italiano e che umiliano e puniscono in ogni occasione i bambini che si lasciano sfuggire qualche parola nella loro lingua abituale, attaccano l’ultimo baluardo linguistico, quello religioso.
I maestri elargiscono schiaffi, insulti (“Capre”) e medaglie di legno da esibire come stigma ai bambini e alle bambine che non si adeguano a quell’obbligo.
In terre segnate dalla fame e dalla povertà, l’inflessibilità delle autorità imporrà anche la sostituzione dei sacerdoti che predicano e che usano il catechismo sloveno, spesso solo perché è quello compreso dalla stragrande maggioranza della popolazione.
I Prefetti ordinano, le forze dell’ordine vigilano e sequestrano, mentre il Vescovo cerca di domare un clero recalcitrante a queste direttive, in quanto consapevole che la lingua slovena è l’unico idioma che permette ai preti di farsi capire dai propri fedeli.
Come in altre zone di confine tutto questo sedimenta odio e ostilità che riemergeranno successivamente.
Il fascismo ha fatto anche cose buone? Per la popolazione delle valli del Natisone, in gran parte contadina, non sembrano emergere ricordi in tal senso, se non le dure privazioni che i fascisti aggiungevano alla già difficile economia di sussistenza: in particolare il “Fondiar”, la tassa sulla terra; se non pagata comportava il sequestro della proprietà e finivi sul lastrico.
Perciò molti bambini già in tenera età dovevano lavorare nei campi e non solo per collaborare al precario reddito familiare.
Inoltre, ulteriori tasse sui fondi (i cosiddetti prediali), la corruzione dei funzionari del fascio e del clero (il famoso “boccone del prete”) contribuivano ad aumentare la miseria della popolazione.
Non pochi contadini delle Valli del Natisone saranno indotti a tentare l’esperienza africana, nelle colonie in Libia, nell’illusione di sfuggire alle condizioni pietose di fame e povertà a cui erano condannati dal “patriottico regime”.
Molti bambini erano obbligati anche a frequentare le colonie in giro per l’Italia.
Esse non vengono ricordate nel libro come posti di svago, ma come luoghi di intruppamento militare coatto per un paese che si preparava ad entrare in guerra a fianco della Germania. E chi tentava di scappare dalle colonie in Romagna per rientrare a casa “erano botte da orbi”.
1941, comincia l’odissea
Da lì a poco, l’entusiasmo diffuso nelle piazze si trasformerà in conflitto, in guerra civile e di Liberazione.
Dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca successiva all’8 settembre ‘43, la popolazione della Benecìa pur supportando il movimento partigiano, non accetta di buon grado il reclutamento forzato del movimento resistenziale sloveno, già operante ed organizzato dalla fine del ‘41.
Il problema nazionale comincia ad emergere e si fa sentire almeno in una parte della popolazione.
Si pensa e si spera che il conflitto sia una cosa che possa non riguardarti e dal quale salvarsi se riesci a mantenerti neutrale. Ma esso ti travolge inevitabilmente.
Le rappresaglie naziste alle azioni partigiane si moltiplicano. Nella memoria rimangono intatti i ricordi dei paesi bruciati come Mezzana a Pulfero o delle fucilazioni sommarie se beccato ad ospitare partigiani o armi di qualsiasi tipo.
Nel libro gli episodi e gli aneddoti rendono molto efficacemente il clima della guerra tra azioni militari, espedienti di ogni tipo per scappare e non farsi beccare dai tedeschi.
Emerge con chiarezza anche il terrore diffuso verso i Cosacchi che, oltre alla Carnia, sono stanziati nelle Valli in funzione anti partigiana e, per la popolazione civile, in particolare femminile, sono un vero spauracchio.
I racconti delle donne violentate da cosacchi ubriachi che poi uccidono, saccheggiano e depredano, sono testimoniati molte volte.
Nei rastrellamenti compiuti da Pulfero e nelle frazioni dei dintorni, come Masarolis e Tarcetta, la furia è tale che non solo tutti e tutte fuggono, comprese “le maestre delle elementari”, ma pure i preti annotano nei diari parrocchiali l’incapacità dei comandi tedeschi a contenere la violenza cosacca.
Anche i bombardamenti alleati creano sconquasso e paura.
Quelli ricordati a Postregna e Antro si sommano al già confuso clima di tutti contro tutti.
Partigiani che attaccano i nazifascisti, nazifascisti che colpiscono i partigiani e la popolazione, delatori e spie da ogni parte e, verso la fine del conflitto, diversi ex fascisti che si riciclano nelle formazioni partigiane osovane, descrivono la complessità della situazione e lo spaesamento diffuso.
Cristina Tovasizza
Particolarmente importante è la testimonianza di Cristina, nome di battaglia “Tovasizza”, che in sloveno significa compagna.
La sua è una storia emblematica e dettagliata.
Orfana di padre a causa dei fascisti, riesce a studiare medicina e, durante la guerra, viene reclutata come infermiera dal movimento partigiano.
Si sposta ed opera in una zona molto ampia, dal Matajur a Luico, dall’Ospedale partigiano di Fragna (Franja) a Stregna, da Caporetto a Lubiana; ciò le permette di vedere e raccontare tali e tante vicende e di rischiare la sua vita molte volte, oltre a salvarne parecchie grazie al suo prezioso lavoro.
La sua testimonianza è una delle più importanti del libro e contribuisce a ricostruire molti avvenimenti intercorsi tra il ‘43 e la fine del ‘45 tra la Benecìa e la Slovenia.
Dopo la fine della guerra spera di poter tornare dalla sua famiglia in Italia, ma l’appartenenza ed il ruolo nel movimento partigiano le procurano una serie di guai che quasi le costano la vita e la obbligano a rimanere in Slovenia.
Dice la Alajmo: “I conflitti, le fazioni restano; chi era fascista lo rimane anche se cambia divisa e pesta la povera Tovasizza solo perché proviene da oltre un confine per altro non ancora ben definito.”
Ma qui inizia un altra storia, dove la Guerra fredda e l’emigrazione si mescoleranno condizionando ancora per molto tempo queste genti di frontiera.
Libraio udinese, una laurea in Storia, grande passione.
- Stefano Polhttps://ilpassogiusto.eu/author/spol/