
Vecchie Province o nuove Agenzie territoriali? Un modello di riferimento per gli enti di area vasta
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Il dibattito sulla pratica applicazione delle prossime modifiche costituzionali relative alla istituzione di “aree vaste” note prevalentemente come “nuove province regionali” mi pare sconti un limite sostanziale. Manca una credibile risposta alla domanda: “a cosa servono?”.
Le “vecchie province”, organizzazioni prevalentemente statistiche in cui è suddiviso lo spazio geografico dello Stato italiano, sono specifici territori in cui lo Stato stesso decentra uffici fondamentali per la gestione di propri poteri di governo quali la giustizia, la sicurezza e l’ordine pubblico, il sistema previdenziale e fiscale. Non sono mai state abrogate e sono un riferimento fondamentale nella vita di ogni giorno.
Il dibattito politico regionale si interroga sulla opportunità di ricostruire degli enti locali di decentramento o sulla stessa dimensione delle precedenti ed abrogate province statali o eventualmente modificandone la geografia in base a valutazioni di “opportunità”. L’operazione dovrebbe rientrare nella potestà regionale di riorganizzare il proprio sistema di “enti locali”, oggi di fatto centrato sui comuni e sulle loro aggregazioni. Si discute su quale debba essere il modello elettorale per tale nuova istituzione, ma dato per scontato che sia di elezione diretta (altrimenti non ci sarebbe stato bisogno della modifica costituzionale), la contesa politica riguarda due questioni essenziali: confini e competenze. Per queste ultime si ritiene di prelevarne parte alla sempre più centralizzata amministrazione regionale e parte ai sempre meno organizzati comuni.
Non sono previsti livelli diretti ed autonomi di tassazione per tale nuova istituzione, o perlomeno nulla appare dal dibattito attuale, anche se la regola indica che ad una autonomia rappresentativa dovrebbe corrispondere una definizione di contribuzione dei cittadini (“no taxation without representation”, vale anche l’inverso). Nel caso in questione sembrerebbe a carico unicamente del bilancio regionale senza ulteriori aggravi. A essere generosi si tratterebbe quindi di un modello di territorializzazione di poteri regionali simile a quanto avviene per le province statali, salvo che invece di metterne a capo dei prefetti o dei direttori provinciali ci si affida al meccanismo elettorale partitico.
L’interpretazione del territorio deve evolvere
Ma è di questo che abbiamo bisogno? Ho l’impressione che si stia dando una risposta sbagliata ad una domanda seria. Che è quella non di nuovi modelli westfaliani di governo, ma quella di dotare le diversità territoriali di strumenti di interpretazione delle proprie necessità e di guida e strumenti per la loro realizzazione. Necessità a cui non si può rispondere unicamente in termini di confini e competenze, ma sapendo affrontare in maniera intelligente le difficoltà di integrazione di temi e spazi nel confronto decisionale.
Una precisazione. Quello di cui stiamo discutendo non è l’universo dei servizi pubblici alla cui domanda si deve rispondere con adeguatezza ed efficienza. Tali servizi, dalla sanità al trasporto pubblico, dall’istruzione alla disponibilità di varie forme di energia o servizi a rete, etc. trovano risposte o direttamente dall’amministrazione pubblica o attraverso concessioni controllate al privato e si organizzano su dimensioni ottimali (talvolta discusse) che dipendono dalle caratteristiche del servizio. La Regione e gli enti locali operano spesso con soluzioni (anche consortili) non comprimibili in spazi univoci per esercizi di servizio differenti.
Quello di cui il “territorio” ha bisogno è di trovare proprie dimensioni adeguate per contribuire ad affrontare alcuni processi di governo che tecnicamente si possono definire come “rigenerazione territoriale ed urbana”. (*) Dove peraltro i due termini “urbano” e “territoriale” assumono significati non coincidenti. Cito alcuni temi.
I processi oggi in atto riguardano lo spopolamento demografico e l’abbandono insediativo territoriale, le conseguenze del cambiamento climatico, specificità geografiche ed ambientali tra cui quelle legate ai fiumi ed all’acqua, le caratteristiche di interi settori economici (agricoltura, casa, autonomia energetica), i rapporti economici e sociali con realtà di altro inquadramento istituzionale (appartenenti a Regioni italiane o stati limitrofi ed anche oltre).
Ogni territorio, nel suo percorso identificativo, se correttamente individuato, possiede un set diverso di dati critici da considerare per un suo “progetto di rigenerazione territoriale” e dovrebbe quindi poter usare strumenti diversificati nell’affrontarli.
Per questo ritengo non utile per costruire o ricostruire un ente di governo di area vasta una istituzione ingessata e ovunque uguale ma piuttosto una ricerca specifica delle caratteristiche e delle missioni che devono essere affrontate. Oggi peraltro non siamo all’anno zero. Sia a livello europeo che nell’ambito della specialità regionale esistono iniziative sperimentate che possono concorrere ai percorsi di rigenerazione. Mi riferisco ad esempio ai consorzi industriali, alle comunità montane, ai Parchi regionali, ai GECT, ai progetti Leader, etc. Si tratta quindi di fare una ricognizione e di progettare un percorso che permetta di meglio utilizzare l’esistente costruendo dei centri di “emanazione di politiche territoriali” che ne possano amplificare ed integrare le prospettive.
Le “Agenzie” di rigenerazione territoriale come soluzione
Per questo la mia proposta riguarda l’istituzione di “agenzie rivolte agli obiettivi di rigenerazione territoriale” che integrino lo sguardo regionale con quello locale proponendo una “governance” mista tra politica regionale (la cui espressione non può che essere il consiglio regionale) e politica locale (che è espressa dai comuni) che sappia creare capacità interpretativa “tecnicamente” adeguata nei territori che ritengono di esprimersi su tale terreno. Integrazione e coordinamento di conoscenze e organizzazioni esistenti, definizione di obiettivi anche sulla base delle disponibilità partecipative delle comunità coinvolte, rapporti a intensità variabile tra territori parzialmente integrabili, sono alcune delle caratteristiche che dovrebbero essere perseguite.
Alcuni territori, per istanze che oggi già esprimono, sono immediatamente coinvolgibili con in prima fila quelli montani e quelli interessati a fenomeni territoriali di ampio respiro come i fiumi Tagliamento e Isonzo. Ma incombe anche il tema della insediabilità abitativa e del degrado demografico e sociale per molte zone rurali della pianura, senza dimenticare alcuni temi identitari che riguardano le specificità linguistiche o consolidate appartenenze storiche.
Nella storia della Regione Friuli-Venezia Giulia per la verità c’è già stata una “agenzia” guidata da Consiglio Regionale e dagli Enti locali territoriali, sia pure sotto la supervisione di un Prefetto. Aveva il compito di “rigenerare” una area fortemente debilitata dalle conseguenze della guerra e si chiamava “Fondo Trieste”. La sua dotazione finanziaria fu comparabile a quanto lo Stato impiegò per la ricostruzione del Friuli terremotato ma, priva di percorsi di elaborazione autonoma e partecipata finalizzati alla sua governance, divenne soprattutto una macchina clientelare. Una rilettura di quella esperienza non sarebbe inutile.
Non si può negare che esiste oggi un grave problema politico sentito particolarmente nelle aree friulane. La centralità regionale (e la concentrazione del potere del “governatore”) è vissuta anche come una supremazia metropolitana di Trieste e dei suoi temi di riferimento con una sudditanza del territorio a quelle esigenze. Un percorso di rigenerazione deve anche saper dare soggettività (politica, produttiva, sociale, culturale) proprio alla “complessità” friulana che può contribuire in maniera decisiva alla “resilienza” del territorio trovando nella varietà dei propri radicamenti lo stimolo all’azione progettuale. Come esempio, c’è sul tavolo la riscoperta del Tagliamento come simbolo e attore fisico di una “nazione negata” che può trovare nelle esigenze di conservazione e valorizzazione di quel patrimonio proprio l’incipit di una vera “rigenerazione territoriale”.
Non abbiamo bisogno di ulteriori match elettorali con vincitori e perdenti ma di cominciare ad utilizzare tutte le risorse che le basi territoriali esprimono dandone espressione di confronto con le difficoltà della post modernità e rivendicando il valore di un radicamento che sappia utilizzare tutti i rapporti di apertura e conoscenza oggi disponibili.
Molto di quanto proposto si può fare a bocce ferme. Probabilmente stiamo molestando da tempo il Parlamento italiano per questioni che avremmo potuto affrontare con quanto già abbiamo a disposizione a Statuto vigente, bisognoso sì di modifiche ma di ben altro rilievo. “Errare humanum est, perseverare diabolicum”.
(*) per l’approfondimento di questo tema un riferimento utile si trova nel volume “Postmetropoli e sistemi ecopolitani” di Sandro Fabbro ed altri, Carocci editore 2025, che peraltro affronta sistematicamente anche le caratteristiche territoriali regionali e del Friuli in particolare.


Attivo in politica dai primi anni Sessanta del secolo scorso, è stato consigliere regionale di opposizione per tre legislature e per due mandati assessore all’Urbanistica e alla Mobilità del Comune di Udine, presidente regionale di Legambiente FVG negli anni Novanta e Duemila. Saggista, ha decine di pubblicazioni all’attivo. Collabora con testate di informazione locale su temi di attualità politica, sociale ed economica.
- Giorgio Cavallohttps://ilpassogiusto.eu/author/gcavallo/
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