Quattro referendum per il voto libero ed uguale.
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È in pieno svolgimento una intensa campagna referendaria, che potrebbe rappresentare una ripresa di partecipazione attorno ad alcuni temi circoscritti ma importanti, per certi versi “di principio”, che, forse, sostituisce il vuoto pneumatico di contenuti a cui sono ormai ridotte le campagne elettorali, ultima quella per le elezioni europee.
Peccato dover registrare che non tutti i quesiti referendari godano della stessa attenzione da parte dei media, e che vengano in particolare bistrattati proprio quelli che non sono stati voluti o sostenuti da grandi partiti e da forti associazioni, ma che sono stati ideati, costruiti e proposti da movimenti e club culturali, reti politiche minori, ma non per questo senza nessun diritto ad essere nemmeno citati nell’odierna società del pettegolezzo politico.
Eppure il tema sollevato con quattro quesiti referendari e una proposta di legge di iniziativa popolare, riguardanti la legge elettorale vigente per Camera e Senato, non è né secondario né trascurabile se si vuole riflettere su questo lungo periodo di crisi della politica, dei partiti, delle istituzioni, così ben rappresentata non solo dalla povertà disarmante del dibattito, ma soprattutto dalla crescita costante dell’astensionismo, dal più piccolo Comune alla più grande Unione Europea.
Perseverare fino in fondo nella semplificazione e nella prevalenza degli esecutivi
Una crisi lunga ormai trent’anni che, di nuovo, si tenterà di risolvere con l’ennesima forzatura costituzionale, anzi andando oltre all’attuale Costituzione, con l’idea del premierato, destinato a sconvolgere non solo di fatto ma formalmente tutti i rapporti istituzionali così come li abbiamo conosciuti.
Non solo fra Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica, anche fra Presidente del Consiglio e ministri, e Parlamento, e Regioni. E poi, via via inevitabilmente verranno modificati i rapporti con la Magistratura e tutti gli organi di controllo. Non sono cose nuove ed imprevedibili…
Perché la possibile vittoria del premierato sarà, con tutta evidenza, anche la vittoria di un partito politico che crede fermamente, e già ora, che “chi vince prende tutto”, che è ovvio che il partito vincente occupi lo Stato, e che non esita a cannibalizzare i suoi compagni di strada approfittando di un ceto, politico per modo di dire, che ha rinnovato le migliori stagioni del giolittismo, del trasformismo.
A fronte di questo progetto politico e istituzionale, che è pienamente coerente con l’insieme delle scelte di questo centrodestra, non esiste una coerente proposta delle diverse opposizioni.
Personalmente non ritengo tale la campagna referendaria contro la legge Calderoli, che per il merito è comunque da bocciare, perché salvo sparuti gruppi di leghisti d’un tempo non vedo più partiti vicini al regionalismo, alle autonomie locali, tanto meno all’autonomia dei corpi sociali. La stessa Lega per come l’ha trasformata Salvini è ormai solo un partito di destra, che compete a destra con un altro partito di destra.
Non sono le Regioni, ad autonomia differenziata o meno, ad essere o ad essere state una delle cause della caduta di capacità nel governare l’Italia. Probabilmente invece, ma il discorso sarebbe lungo, sono state sbagliate più di una delle soluzioni sperimentate per uscire dalla crisi della cosiddetta Prima Repubblica, dalla crisi di quelle rappresentanze, prima di tutto dei partiti del tempo. O, perlomeno, quei tentativi si sono trovati a coesistere con troppi altri fenomeni globali che ne hanno impedito la realizzazione positiva.
Qualcosa si è sbagliato dopo la Prima Repubblica
Alla fine, dagli anni 90 un passo dopo l’altro ma tutti nella stessa direzione, siamo a questo punto.
I cittadini non eleggono più né deputati né senatori. I partiti sono una specie di clan che si autoperpetua facendo eleggere soprattutto se non solo i fedeli. Degrada quindi la loro stessa dialettica interna. Basta ricordare i capi “onnipotenti” e chi caduto in disgrazia è finito nel nulla o ha cambiato cordata.
In queste condizioni deputati e senatori nominati possono/devono votare qualsiasi cosa il governo di turno proponga. Alla faccia del “non avere vincolo di mandato” o “di rappresentare la nazione”. E qualsiasi cosa voti non avrà conseguenze sulla sua carriera se sarà piazzato dal capo al posto giusto di una lista bloccata, che da sola garantisce l’elezione.
In queste condizioni i territori, le categorie economiche, i corpi intermedi, le questioni sociali, non hanno più motivo per essere rappresentate, discusse, mediate, risolte in una assemblea con confronto democratico. L’unico abilitato ad ascoltare, giudicare, decidere, fare le leggi, è il governo oggi, il super Presidente del Consiglio domani, insieme ai pochi e selezionati canali di ascolto, di mediazione, di lobby del “partito unico” che sarà.
L’astensionismo, la crescita della disillusione e della distanza dalla cosa pubblica, va bene, anzi benissimo. Una coalizione sufficientemente coesa e granitica nelle sue alleanze internazionali deve solo rivitalizzare ed attualizzare alcune certezze ideologiche e valoriali del proprio campo e curare un numero sufficiente ed adeguato di categorie economiche. Non servono progetti per il futuro, a questi ormai pensano altri, altrove. Al momento solo una cosa può disturbare il manovratore: il disallineamento non voluto con la Commissione Europea e il deficit di bilancio.
Per consolidare questo contesto giocano un ruolo non secondario le regole con cui la volontà del corpo elettorale si trasforma in rappresentanza e funzionamento delle istituzioni. Non per niente siamo alla moltiplicazione dei mandati per i sindaci (all’inizio solo due per non stravolgere gli equilibri istituzionali…), oppure alla riduzione della percentuale dei votanti necessaria per un secondo turno nei Comuni (ridotta dal 50% al 40%…).
Ecco, quei quattro referendum di cui quasi nessuno parla toccano proprio questi aspetti, al cuore del funzionamento di una democrazia parlamentare.
Quattro quesiti
Ne accenno nel merito confessando una personale difficoltà: forse siamo tutti un po’ abbruttiti e non sappiamo più bene come si vota, basta la croce sul simbolo e via. Invece no.
Il primo quesito vuole abolire un meccanismo, nascosto o dimenticato, della legge elettorale vigente. Quando voti il candidato/a del tuo collegio uninominale in realtà voti anche obbligatoriamente, in modo ripartito, per tutte le liste collegate a quel candidato nei collegi plurinominali e non è possibile non accettare né le liste né i candidati bloccati di quelle liste. Altrove o in altri tempi era possibile il voto “disgiunto”…
Questo accade anche perché, ed è il secondo quesito, si è voluto introdurre e accrescere le soglie di sbarramento contro la “dispersione” dei partiti con idee “minori”. Fallito il tentativo di costruire due partiti “acchiappatutto” le soglie servono a “fidelizzare” gli alleati minori, perché stiano nel gruppo senza imbizzarrimenti impropri, altrimenti “non ti do l’apparentamento e finisci nel nulla” (chi non ricorda digiti “Veltroni”…).
Un terzo quesito riguarda l’abolizione delle pluricandidature. Fenomeno non recente ma non per questo meno odioso. Se da un lato consente l’ulteriore personalizzazione dei partiti, magari privi di programmi ma non di “leadership” nei simboli e nei media, dall’altro consente ulteriori manipolazioni del consenso e potere “di vita e di morte” sugli altri candidati in attesa della scelta del collegio. Un altro modo per umiliare il confronto interno e irridere gli elettori.
L’ultimo quesito riguarda l’abolizione dell’esclusione dall’obbligo della raccolta di firme per chi abbia già rappresentanze parlamentari. Non è solo una questione di parità di trattamento per tutti, oppure di impedire il mercatino delle norme per consentire, attraverso sconosciuti regolamenti interni delle Camere, di riconoscere questo beneficio anche a chi non ne avrebbe i requisiti.
Ottenere le firme è anche un modo concreto per misurare le effettive consistenze di personaggi e movimenti politici nel loro insediamento territoriale, prima di campagne elettorali che svolgendosi sempre più nel mondo della comunicazione sono per questo sempre più dipendenti dall’investimento economico e, quindi, da chi lo fornisce.
Abbiamo visto nei giorni scorsi il peso dei grandi finanziatori nel costringere un riottoso presidente ed il suo protettivo entourage a rinunciare alla ricandidatura…
Infine viene proposta anche una legge di iniziativa popolare per introdurre nelle liste dei collegi plurinominali (che eleggono i 5/8 di Camera e Senato) la preferenza al posto delle attuali liste bloccate. Anzi due preferenze, diverse per genere.
Ovviamente sia i quesiti referendari che la proposta di legge, anche se vincenti nelle urne e in un improbabile voto parlamentare, non sarebbero risolutive né delle storture delle leggi elettorali né per rivitalizzare un sistema politico in disfacimento. Restano però un tentativo di percorrere una strada diversa per la riforma della politica, una scelta di principio e di libertà nei confronti di chi fa finta di niente, approfitta della disaffezione popolar e si ritiene per di più “al di sopra della legge”.
Dobbiamo ricordarci infatti che i nostri sistemi elettorali (Porcellum e Italicum per chi si ricorda) sono già stati bocciati nel 2014 e nel 2017 dalla Corte Costituzionale con l’invito a reintrodurre le preferenze, e che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto recentemente ammissibile il ricorso contro il Rosatellum in quanto “non adatto a consentire un voto libero ed eguale”.
Questa uscita “straordinaria” del Passo Giusto nel bel mezzo del caldo agosto, trova giustificazione non solo nel cercare di comunicare un progetto altrimenti misconosciuto, ma soprattutto nel far sapere che infine è possibile firmare i quesiti anche in modo digitale, da casa con SPID e computer. Se sei arrivato/a fin qui allora firma!