Porto Vecchio, ossia Punto Franco Nord o Punto Franco Vecchio
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Trieste, città con una storia millenaria, ha da sempre ricoperto un ruolo strategico nella geografia economica dell’Europa. Punto di incontro tra mondi, culture e tradizioni diverse, la città deve il suo splendore passato alla posizione di snodo commerciale di primo piano, che l’ha resa una città cosmopolita e un centro di scambi tra l’Europa occidentale e centrale, i Balcani e il mondo orientale. Il Porto Vecchio, in particolare, rappresenta uno dei simboli più forti di questa eredità: un’area portuale costruita nella seconda metà dell’Ottocento e pensata come sviluppo del porto franco istituito nel 1719 dall’Impero austro-ungarico, che permise a Trieste di diventare uno dei principali porti del Mediterraneo e di crescere come centro commerciale e industriale.
Cesare Dell’Acqua (Pirano d’Istria 1821 – Bruxelles 1905) La proclamazione del Porto Franco di Trieste
Porto Vecchio: innovazione, produzione ed espansione
Già dal 1890 il Porto Vecchio di Trieste era contraddistinto da grande modernità relativa alle infrastrutture e alla logistica interna: fu infatti uno dei primi scali mondiali dotati di una Centrale Idrodinamica che alimentava con acqua in pressione le gru da banchina, da capannone e i montacarichi.
Ad inizio del ‘900 spinto dall’espansione di alcuni protagonisti degli ultimi decenni del secolo precedente, tra i quali per esempio il Lloyd Austriaco che con la sua flotta sociale assicurò all’economia marittima triestina un supporto insostituibile, e dalla esigenza di aumentare i collegamenti con il Centro Europa, il Porto ebbe necessità di ampliare le aree di sua competenza, cantierizzando il cosiddetto “Porto Nuovo” nell’area di Sant’Andrea, raggiunta dal tracciato ferroviario della Transalpina. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 le attività del Porto si fermarono fino alla fine del conflitto e con il Trattato di Rapallo del 1920 – quando si sancì ufficialmente l’annessione della città all’Italia – Trieste “ricongiunta alla madre patria” perse gran parte dei suoi mercati di riferimento oltre alle caratteristiche di città multiculturale, subendo una politica di italianizzazione forzata, con restrizioni alla cultura e alle lingue slave e germaniche.
Durante il primo dopoguerra, l’Italia avviò politiche volte a incentivare il rilancio economico di Trieste, concentrandosi sul rafforzamento del porto come nodo strategico per i collegamenti con il Medio Oriente e il Nord Africa. Attirati dai benefici doganali e dalla possibilità di manipolare le merci all’interno del Porto Franco, investitori italiani e stranieri di altissimo livello insediarono le proprie attività in Porto Vecchio: nel 1923 Henry Ford, presidente del colosso americano, scelse il porto di Trieste per insediare il primo stabilimento italiano della Ford Motor Company. Il sito (situato nei magazzini 27 e 28) era particolarmente idoneo per la presenza di capillari reti ferroviarie interne. La Stock realizzò uno stabilimento di distillazione e imbottigliamento di liquori nel magazzino 34, la Lucky Shoe nel secondo dopoguerra produsse calzature all’interno del magazzino 26 con ben 3 reparti e 350 dipendenti, soprattutto donne.
Quartiere Ford – Porto Vecchio di Trieste
Le crisi del ‘900
Le difficoltà economiche e l’isolamento dai mercati tradizionali portarono a un declino delle attività commerciali e industriali, aggravato dalla crisi globale del 1929. Nonostante le difficoltà, alcune industrie locali, come quelle legate alla cantieristica, alla metallurgia e alla chimica, riuscirono, sostenute da sforzi per promuovere l’industria nazionale, a mantenere attiva la produzione e ad alimentare i traffici marittimi.
All’inizio della seconda guerra mondiale la superficie totale delle attrezzature portuali supera comunque il milione di metri quadrati.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il Terzo Reich occupò Trieste e altre aree della Venezia Giulia, dell’Istria, della Slovenia occidentale e del Friuli. I conseguenti 16 raid aerei angloamericani del ‘44 e del ‘45 causarono gravissimi danni alle infrastrutture portuali, oltre a causare quasi 700 vittime civili.
Liberatasi dal regime nazista, a partire dal 12 giugno 1945, Trieste fu posta sotto la cosiddetta “Amministrazione Alleata” dei Governi Anglo-Americani, in seguito all’abbandono della città da parte delle forze partigiane dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia intervenute già dal primo maggio e resesi protagoniste di crimini e politiche repressive, arresti e deportazioni.
Quartiere tra il Territorio Libero di Trieste e l’Italia – Duino
Il Territorio Libero
Il Trattato di Pace di Parigi del 1947, sottoscritto dall’Italia in qualità di nazione sconfitta, diede vita a un’entità che non visse mai una vera autonomia: il Territorio Libero di Trieste.
Importanti interventi economici americani permisero la completa ricostruzione e l’ammodernamento delle strutture portuali e nel Piano Marshall, Trieste fu uno dei pochissimi scali pienamente funzionanti, divenendo un centro di distribuzione degli aiuti degli Stati Uniti per rianimare l’economia europea.
Sette anni non furono però sufficienti per le Nazioni Unite per portare a termine quanto previsto dal secondo articolo dell’Allegato VI del Trattato “L’integrità e l’indipendenza del Territorio Libero di Trieste sarà garantita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.” e per nominarne un Governatore.
Le mutate situazioni geopolitiche e pressioni sempre più importanti del Governo Italiano fecero sì che attraverso un Memorandum, firmato a Londra il 5 ottobre 1954 “constatata l’impossibilità di tradurre in atto le clausole del Trattato di pace con l’Italia relative al Territorio Libero di Trieste” “… i Governi italiano e jugoslavo estenderanno immediatamente la loro Amministrazione civile sulla zona per la quale avranno la responsabilità.”
Di tutto ciò che prevedeva il Trattato di Parigi, nel Memorandum sopravvisse quanto segue: “Il Governo italiano si impegna a mantenere il Porto Franco a Trieste in armonia con le disposizioni degli articoli da 1 a 20 dell’Allegato VIII del Trattato di pace con l’Italia.”
Dal secondo dopoguerra ai giorni nostri
Il 26 ottobre 1954 le truppe Italiane entrarono in città, (in questi giorni abbiamo assistito a numerose celebrazioni ed eventi organizzati grazie ad ingenti contributi messi a disposizione dal Governo Regionale) ed assieme ad esse anche l’Amministrazione Italiana, mentre oltre 20.000 triestine e triestini, dal 1954 al 1961, la lasciarono per fuggire da una situazione politica instabile, diretti soprattutto verso l’Australia e il Canada.
Il Porto Vecchio iniziò a soffrire a causa della concorrenza di altre infrastrutture portuali e cambiamenti nel commercio marittimo, che andava via via favorendo porti più grandi e attrezzati. Negli anni ‘60 e ‘70 la crisi industriale, culminata con la crisi cantieristica, la concorrenza sia internazionale che nazionale degli altri scali e le ripetute chiusure del Canale di Suez portarono a una significativa riduzione del traffico e in particolare dell’utilizzo del Porto Vecchio: fortunatamente l’apertura dell’Oleodotto Transalpino, avvenuta nel 1967, fornì le risorse allo scalo triestino per entrare nel trasporto intermodale e nel nascente utilizzo dei container.
Gli accordi di Osimo del 1975, capitolo finale delle dispute territoriali seguenti al secondo conflitto mondiale, prevedevano specifici intenti riguardanti la portualità adriatica, intenti che però non trovarono mai compimento: la necessità di una stretta e permanente cooperazione tra gli scali del nord Adriatico, con lo scopo di realizzare il miglioramento delle strutture e delle infrastrutture portuali in modo da ridurre i costi di gestione e da aumentare la concorrenzialità nei confronti dei porti del Nord Europa e la creazione di una zona franca interconfinaria nella quale applicare i benefici previsti per il Porto Franco Internazionale di Trieste. Nacque in quel momento per contrastare le previsioni legate allo sfruttamento incontrollato del territorio carsico e per contrapporre ad esse la creazione di una “Zona Franca Integrale” in tutta la Provincia, l’importante esperienza politica rappresentata dalla “Lista per Trieste”.
Nel Porto Vecchio in quegli anni si continuò ad operare anche realizzando nuove infrastrutture come quelle dell’Adriaterminal – l’unica parte ancora viva e operativa del Punto Franco Vecchio. Nel comprensorio operano ancora infatti due Società di rilievo internazionale: la C. Steinweg – Genoa Metal Terminal (GMT), protagonista in Italia della logistica dei metalli, e la Saipem, leader mondiale nel settore dei servizi per l’industria petrolifera onshore e offshore.
Vista del Porto Vecchio di Trieste
La sdemanializzazione
I 65 ettari del Porto Vecchio, solo parzialmente ancora interessati dalle attività portuali, ricchi di edifici storici tutelati ma poveri di moderne infrastrutture hanno sempre più destato interesse quale volano decisivo per una crescita coerente e organica della città e di tutta la Regione. Più società o cordate si affacciarono con progetti di riqualificazione e rilevarono la gestione delle aree dall’Autorità Portuale, ancora in capo alla quale il Porto Vecchio gravitava. Greensisam prima, e poi Portocittà S.p.A. (partecipata da Rizzani de Eccher e Maltauro, Biis e Carifvg del gruppo Intesa Sanpaolo e dalla società di promozione di partenariati pubblico-privato Sinloc), ottennero a tal fine concessioni quasi secolari. La permanenza delle aree nel regime giuridico di Porto Franco e la non chiara attribuzione di competenze misero però a rischio gli interventi: iniziarono quindi i tentativi per “liberare” l’area da quelli che erano considerati vincoli e non benefici. Già da dicembre 2012 interventi politicamente trasversali furono intrapresi alla Camera da Rosato (PD), Antonione (Pli) e Menia (FlI). Nessun risultato fu ottenuto e Portocittà abbandonò l’iniziativa mentre il contenzioso nato con Greensisam si chiuderà solo lo scorso anno. Solo a dicembre del 2014, con un emendamento inserito a notte fonda all’interno della Legge di Stabilità 2015 (Legge costruita su un solo articolo con 735 commi), l’allora Senatore Russo diede modo al Commissario di Governo di spostare i Punti Franchi dal Porto Vecchio ad altra zona e, conseguentemente, tutte le aree e gli edifici (esclusi quelli ancora operanti in tale area) furono assegnate al patrimonio del Comune di Trieste per essere destinate alle finalita’ previste dagli strumenti urbanistici.
La Variante al Piano Regolatore Portuale per l’ambito del Porto Vecchio: aree funzionali ammesse
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In conclusione, il Porto Vecchio di Trieste è un luogo ricco di storia e significato, che riflette non solo il passato glorioso della città come snodo commerciale internazionale, ma anche le sfide e i cambiamenti che ha affrontato nel corso del tempo. Dalla sua fondazione nel XVIII secolo come porto franco, fino alle turbolenze del XX secolo e alle trasformazioni più recenti, quest’area portuale ha visto un’evoluzione continua, testimoniando l’elasticità di Trieste nel rispondere alle esigenze economiche e geopolitiche. Oggi, nonostante le difficoltà legate alla concorrenza di scali più moderni, il Porto Vecchio conserva ancora un’importanza strategica che potrebbe favorire un nuovo rinascimento con un equilibrato connubio tra residenzialità, terziario avanzato, produzioni hi-tech, economia del mare, turismo e cultura. La sua storia, segnata da eventi drammatici e cambiamenti radicali, continua a influenzare la città e a fornire opportunità per un futuro innovativo e sostenibile, rendendo il Porto Vecchio un simbolo di resilienza e speranza per la comunità triestina.