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Numero 28 | Febbraio 2025

Terra Madre

La nostra Terra Madre


Quest’anno siamo stati a Terra Madre, il più importante evento internazionale sul cibo buono, pulito e giusto, organizzato da Slow Food Italia a Torino. Quattro densissime giornate in cui si sono susseguite decine di incontri sulle politiche locali del cibo. Perché la politica non può prescindere dal parlare di alimentazione, e le scelte fatte in quest’ambito sono fortemente politiche. Nonostante tutte le difficoltà e le contraddizioni da affrontare, l’evento ha portato avanti una visione coraggiosa. 

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ha fatto un intervento senza mezzi termini: bisogna dire stop all’antropocentrismo. Il sistema alimentare globale è il primo responsabile del disastro ambientale, visto che da solo produce il 37% di CO2 (la mobilità solo il 17%). E l’inequità dello spreco è inaccettabile: stiamo producendo cibo per 12 miliardi di viventi, il 33% del cibo prodotto viene buttato via – un miliardo e mezzo di tonnellate all’anno – ma abbiamo 20 milioni di morti all’anno per fame. È arrivato il momento di prendere coscienza che è necessario cambiare velocemente certi paradigmi. La rivoluzione industriale durata tre secoli si basava sul presupposto errato che le risorse del pianeta fossero infinite. Dobbiamo ora comprendere che ci troviamo in una nuova fase storica: quella della transizione. Uscire dal consumismo è l’unico modo per salvare il mondo, e dobbiamo vivere con gioia questa liberazione dalla necessità compulsiva del consumare. Dobbiamo imparare a governare il limite. 

L’intervento di don Luigi Ciotti ha lasciato un grande messaggio di fiducia sulle giovani generazioni, invitando a credere in loro, invitando la politica a far sì che abbiano gli spazi per essere protagoniste. Un incontro in cui si parlava di sfruttamento, caporalato, agromafie, del ruolo degli oligopoli economici e del giornalismo. Vi è la necessità di trovare il coraggio di spezzare queste dinamiche di potere e non aver paura di dire che le multinazionali della grande distribuzione organizzata sono degli attori chiave in questo sistema complesso di sfruttamento delle persone e dell’ambiente che non possiamo più tollerare. A partire dalle leggi criminogene sulle migrazioni, che creano ricattabilità, miseria, violenza.

Un nuovo vocabolario per parlare di cibo

Le parole contano. Diversi interventi hanno sottolineato quanto sia importante cambiare terminologia. Parlare di accoglienza di comunità invece che di turismo. Di limiti invece che di sostenibilità. Di condividere un territorio, anziché di venderlo, perché i prodotti si vendono, non i beni comuni. Di abitanti, non di residenti, che ha un’accezione passiva. Di bellezza non con accezione estetica ma di equilibrio: il senso di un luogo e del nostro essere lì. 

Anche ribaltare le narrazioni è fondamentale. L’idea di sostenere i piccoli produttori non ha solo un fine culturale o edonistico, per evitare di perdere un gusto: si tratta di sostenere una diversa visione sociale di mondo, che ha delle conseguenze dirette su tutti noi. È così che bisognerebbe discutere di economia relazionale

Così come esplicitare cause ed effetti: si perde biodiversità a causa della crisi climatica, ma la crisi climatica è a sua volta un effetto della perdita di biodiversità, che è un equilibrio all’interno del sistema. 

Non è solo una questione formale. Nelle comunità a supporto dell’agricoltura, la struttura sociale fa sì che crolli il confine tra produttori e consumatori. I produttori sono soci esattamente come gli altri, ma con un ruolo diverso per il quale vengono retribuiti. Così come il passaggio da prezzo a costo: ci sono dei costi da sostenere, non un prezzo definito da chissà che meccanismi del mercato.

Urgenza e complessità delle politiche locali del cibo

Tantissimi incontri hanno animato lo spazio “nutrire le città”, dedicato alle politiche locali del cibo, sulle quali abbiamo tantissimo da imparare. Elena Granata ha affermato che il piano clima delle città deve essere il piano dei piani, da cui far discendere tutto il resto. Perché: prima la sopravvivenza, poi l’urbanistica. Un piano di azioni concrete, la cui qualità non si misura con numero di pagine (che spesso nasconde fuffa), e in cui sia chiaro un dettaglio che nei piani viene spesso omesso: chi fa cosa. Deve essere il piano di tutte le persone che la città la abitano, ed essere quindi condiviso e partecipato. Nel dialogo tra lei e Federico Butera, ci hanno raccontato di come far sì che il cambiamento venga promosso dalla politica adottando soluzioni di adattamento, dunque immediatamente visibili dalla cittadinanza che vota, ma che al contempo servano anche da mitigazione, effetto solitamente invisibile nel breve periodo. E allora per prima cosa depavimentazione: togliere il cemento ovunque possibile abbassa la temperatura e salva vite umane, oltre a rendere più gradevole lo spazio. Allo stesso tempo, i suoli catturano CO2 e si riduce anche la CO2 emessa dai condizionatori, contribuendo alla mitigazione. La città dei 15 minuti (o meno) oltre a essere comoda e umana, elimina la necessità di possedere un’auto privata, e dunque riduce la CO2 che sarebbe emessa con la circolazione ma anche per la produzione, e libera spazio pubblico. Le piazze d’acqua difendono case e attività commerciali dalle alluvioni, ma allo stesso tempo possono essere luogo di incontro e comunità. L’agricoltura stessa, oltre a nutrirci, è anche un sistema di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico. E tra le azioni del piano clima devono esserci anche quelle legate alle politiche dell’alimentazione. Insomma, la direzione in cui stiamo cercando di spingere anche noi, purtroppo senza essere ascoltati dalle nostre amministrazioni locali, cieche e sorde agli – seppur autorevoli – avvertimenti sul futuro. 

Ruolo del pubblico, mense e fantasia

Oltre alla visione, siamo tornate a casa con tanti esempi concreti di cambiamento reale. 

Il primo arriva dalla Danimarca. La maggior parte delle persone considera lavorare con gli appalti pubblici uno dei lavori più noiosi e frustranti. Siamo rimaste quindi piuttosto stupite nel sentire Betina Bergman Madsen, capo dell’ufficio appalti del Comune di Copenhagen, dichiarare alla fine del suo intervento “e questo è ciò che mi dà gioia, con gli appalti puoi davvero cambiare il mondo”. Betina in pochi anni ha rivoluzionato il mondo delle mense pubbliche, con un po’ di fantasia e tanto amore per il suo lavoro. Copenhagen sta per raggiungere l’obiettivo, fissato – già a inizio 2000 – per motivazioni legate non tanto all’etica quanto alla necessità di preservare l’acqua, del 90% di alimenti biologici nelle mense. Per mantenere i costi uguali, hanno scelto di andare verso una transizione proteica (cioè riducendo gli alimenti di origine animale) e investire sul capitale umano, formando le cuoche e i cuochi a usare materie prime non lavorate. Tutto, racconta Betina, è iniziato con una considerazione: se bambine e bambini avessero avuto un solo tipo di mela sulla loro tavola per ogni giorno della loro vita scolastica, sarebbe stata colpa sua. Così ora chi cresce a Copenhagen impara ad apprezzare più di 80 tipi diversi di mele biologiche. Impara a cucinare e a coltivare le patate. Impara a dare valore al cibo e a non sprecare.

Soprattutto per le aree interne, dove vi è difficoltà di accesso ai servizi basilari, le aziende agricole che presidiano il territorio diventano punto di riferimento e vanno sostenute. A Chieri, ad esempio, c’è un ristorante sociale che offre lavoro a persone con disabilità, rifornendosi da aziende agricole del territorio che pratichino agricoltura sociale, in un’ottica Ecosolidale. A Ivrea, c’è l’esperienza di ZAC, zone attive di cittadinanza, una cooperativa che gestisce un Gruppo di Acquisto Solidale (GAS) in uno spazio pubblico sottoutilizzato, con un’attenzione alla ridistribuzione anti spreco, e un emporio solidale.

Le esperienze in queste direzioni fioccano, e eventi come Terra Madre sono un luogo prezioso dove lasciarsi ispirare e scambiare buone pratiche. Molte città e regioni d’Europa hanno già attivato i Consigli del Cibo, mettendo insieme economia, ambiente, lotta alla povertà alimentare, costruzione di comunità e consapevolezza. Come nel caso delle mense scolastiche che usano il pane prodotto in carcere. In alcuni casi ci sono stati dei passi audaci: ad esempio, Londra ha bannato le pubblicità di junk food dai trasporti pubblici. Voi sareste d’accordo a proibire la promozione di junk food negli spazi pubblicitari gestiti dalle amministrazioni?

Particolarmente articolata e concreta l’attività messa in campo dalla città di Bergamo. Alla scadenza della gara per le mense hanno inserito nel bando alcuni criteri: cibo biologico e locale, disponibilità di svolgere educazione alimentare, obbligo di collaborare con il comune per le food policy, obbligo di misurare gli sprechi alimentari. Hanno aumentato i Criteri Ambientali Minimi (CAM) e mandano newsletter ai genitori dei bambini specificando la provenienza dei cibi. Hanno introdotto un menu totalmente vegetale una volta a settimana e fatto corsi per i cuochi, contemporaneamente hanno svolto corsi teorico-pratici di educazione alimentare con biologi nutrizionisti rivolti a alunne e alunni, insegnanti e alle commissioni mensa, oltre che dei percorsi con i genitori nell’orto. Forniscono addirittura ricette per cucinare proteine vegetali, che mandano via newsletter ai genitori ma mettono anche sul sito a disposizione di tutti. Infine, stanno promuovendo un menu green per bar e ristoranti, i quali devono compilare un disciplinare con numerosi requisiti: mettere a disposizione un piatto completamente vegetale per ogni portata, mettere la brocca d’acqua pubblica in tavola gratuitamente, avere materie prime biologiche. In cambio, forniscono loghi, vetrofanie, materiale informativo. 

Territori in movimento. Ci lavoriamo su?

È stato un grande onore poter portare il nostro piccolissimo granello in tutto questo, raccontando l’esperienza di Territori in movimento in uno dei panel di “nutrire le città”. Durante il cammino avevamo affrontato anche la tematica del cibo, sia con l’incontro pubblico a cui avevano partecipato Raoul Tiraboschi, vicepresidente di Slow Food Italia, e Cristina Micheloni, Presidente di AIAB FVG, che sono stati tutor della prima edizione della scuola di politica in cammino, che con diversi metodi di partecipazione. 

Torniamo a casa più affamati. Non di cibo, che naturalmente era buono, pulito e giusto, ma di giustizia ambientale e sociale. E pieni di entusiasmo e voglia di mettersi a lavorare perché queste buone pratiche arrivino anche sul nostro territorio. Fare food policies fatte bene vuol dire cambiare le dinamiche di potere nell’ottica di una comunità più sana e attenta a chi e a ciò che la circonda.

Giulia Massolino
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Giulia Massolino, dottorata in ingegneria dell’energia e dell’ambiente, con master in comunicazione della scienza, economia blu sostenibile e studi di futuro. Da sempre attiva nell’associazionismo, dopo esser stata Consigliera comunale con Adesso Trieste, di cui è co-fondatrice, è attualmente eletta in Regione con il Patto per l’Autonomia.

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