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Numero 22 | 8 novembre 2024

Bandiera Italiana

Riformare le istituzioni al tempo della polarizzazione


È difficile avvicinarsi al tema autonomia differenziata senza farsi cogliere da un doppio pregiudizio. Il primo riguarda il suo primo firmatario Roberto Calderoli, già noto per aver nominato la legge elettorale da lui stesso ideata Porcellum. Nomen omen. Il secondo invece deriva dalla storia della Lega Nord, che affonda le sue radici in un progetto politico apertamente secessionista. In crisi l’opzione nazionalista di Matteo Salvini si torna alle origini, con il nord (il lombardo-veneto come geografia di riferimento) a rivendicare il proprio primato sul resto del paese. 

Due pregiudizi, pur ben consolidati nel tempo, non bastano però se si analizza la questione con gli occhi di un territorio autonomo come il Trentino-Alto Adige. Non si possono semplicemente scrollare le spalle e dire che la riforma non ci riguarda direttamente e che per preservare il nostro status sarà “sufficiente” occuparsi della cosiddetta clausola dell’intesa. Autonomia non può significare mai, per nessuno, disinteresse per ciò che ci circonda. Questo approccio, per così dire difensivo, rischia di perdere di vista le implicazioni più ampie e strutturali dell’impianto proposto dalla norma in oggetto, che toccano non solo le autonomie speciali, ma l’intero assetto dello Stato, colpendo nel vivo il suo già fragile equilibrio istituzionale e socio-economico. 

Non è corretto neppure a mio modo di vedere dire che questa Autonomia differenziata altro non è che la prosecuzione di un percorso (attivatosi su input di diversi governi di centro-sinistra a cavallo della fine del millennio) che ha nella riforma del Titolo V del 2001 il suo punto di svolta, e che opporsi a tale presunta continuità significa tradire quella tradizione autonomistica e sostenere il percorso referendario affossarne ogni possibile evoluzione a favore di un rinnovato centralismo statalista. Tornerò tra poco sul rischio incombente di semplificazione, ma mi preme qui sottoporre qualche domanda a chi di quella fase di apertura federalista – penso a Giorgio Tonini, ma non solo – è stato promotore e appassionato protagonista.

Una “pausa di riflessione” lunga due decenni

Cosa è andato storto se a due decenni di distanza da quegli interventi di revisione costituzionale le dinamiche di governo tra Stato, Regioni e Comuni (le Province intanto le abbiamo abolite, in nome di una populistica idea di riduzione della spesa) rimangono ancora così disordinate e caratterizzate da pericolose e crescenti disuguaglianze territoriali? Dove si è incagliato l’impegno per la definizione (sia in termini di standard, che di risorse, infrastrutture e meccanismi perequativi) degli ormai famosi LEP – Livelli essenziali di prestazione – e degli strumenti per garantirne il mantenimento in ogni angolo della nazione? E ancora, cosa si è fatto nello stesso periodo per rinforzare le fondamenta dello Stato – fisco e debito pubblico, sanità e welfare, istruzione e politiche per il lavoro – senza le quali ogni ipotesi di autogoverno territoriali rischiano di risultare velleitari o peggio ingiusti?

Mi si dirà che ad ognuno di questi quesiti c’è una risposta che conferma la bontà di ciò che si è fatto fin qui, ma ai mei occhi la realtà complessa formatasi negli ultimi anni (la crisi Covid così come le tensioni geopolitiche globali hanno lasciato segni profondi) richiede una ridefinizione profonda e puntuale del rapporto tra diversi livelli amministrativi: conferma della cessione/condivisione di sovranità per la produzione di linee di indirizzo su scala comunitaria, pianificazione strategica e garanzia di livelli minimi di prestazione su quella nazionale, implementazione territorio per territorio di pratiche di autogoverno che sappiano interpretare e valorizzare le particolarità che in ognuno di essi esiste. 

Un dibattito che sappia e voglia includere tutte queste variabili è reso quasi impossibile da un contesto politico pesantemente polarizzato. La campagna referendaria già in corso renderà ancora più nette le posizioni (alla fine la scelta si riduce a un sì o un no) e più dritti gli slogan, senza lasciare spazio a un ragionamento che prenda in considerazione le molteplici sfumature dell’argomento. Non è detto che in assoluto – nel tempo dell’iperpolitica, come la definisce Anton Jäger in un importante libro di prossima pubblicazione – questo sia lo scenario migliore possibile nel quale lavorare.

La polarizzazione senza dialogo

La recente introduzione della raccolta firme anche in forma digitale renderà certamente più semplice la partecipazione, ma può anche moltiplicare le contrapposizioni rendendo ancora più difficile il raggiungimento di un consenso (in assenza di corpi intermedi capaci di aggregare e aiutare la formazione di un pensiero collettivo) su temi caratterizzati da grande complessità. Ma questa, come diceva qualcuno, è un’altra storia.

Arrivati a questo punto la posizione più convincente mi sembra quella espressa recentemente da Gaetano Azzariti su Il Manifesto. Immaginare la mobilitazione in corso come composta da un duplice movimento. Bloccare il peggio (la combinazione di autonomia differenziata e premierato) garantendosi lo spazio per “costruire il meglio”, che per Azzariti significa impegnarsi per la piena applicazione della carta costituzionale e su di essa l’edificazione di una diversa forma di federalismo dal carattere solidale e non competitivo, coesivo e non egoista. Una nuova stagione – aggiungo io – che si riconosce in una geografia territoriale/europea e in un rinnovato spirito cooperativo/comunitario.

Per un buon decentramento – spiega Gianfranco Viesti, portando il ragionamento su un piano molto concreto – vanno rispettati tre criteri chiave: “la chiarezza della divisione delle competenze tra i diversi livelli di governo; la garanzia che ogni livello disponga delle risorse finanziarie, tecniche e umane necessarie per gestirle e infine la consapevolezza che le competenze (e la loro giusta allocazione) non sono il fine ma un mezzo per migliorare la capacità di governo rispetto a grandi obiettivi di sviluppo economico, sociale e umano”.

Questo significa che l’Autonomia va intesa come uno strumento utile alla costruzione di un sistema di governo in cui tutto il variegato ecosistema degli enti locali – indipendentemente dalla loro forza economica – possano contribuire al benessere collettivo, rafforzando la coesione sociale e garantendo diritti e opportunità, oltre che servizi di qualità, su tutto il territorio nazionale. In altre parole, l’Autonomia deve essere uno strumento per rendere la cura della cosa pubblica e del bene comune davvero più prossima a cittadini e cittadine in termini di equità e giustizia sociale, responsabilità condivisa e richiamo alla partecipazione diffusa.

Rimettere questo ambizioso obiettivo riformatore al centro della discussione in corso dovrebbe essere il contributo che un territorio come il nostro offre all’Italia intera. Sarebbe il modo più corretto e lungimirante di farsi carico della manutenzione dell’intuizione autonomistica degasperiana, raccogliendone il testimone senza inaridirne il contenuto e rigenerandone (con lo sguardo necessariamente rivolto a un futuro pieno di incognite, oggi quasi come al termine della seconda guerra mondiale) la carica profetica. Lo si deve fare per e, soprattutto, con le comunità ci ricorderebbe lo statista di Pieve Tesino.

Un esercizio di immaginazione e di costruzione di futuro che solo la Politica può assumersi. Se ne è ancora capace. 

Federico Zappini

Consigliere comunale a Trento, dove fa il libraio, ultima tappa di una vita fatta di tanti lavori, con la costante della curiosità rispetto a tutto ciò che lo circonda. La sua formazione politica avviene nei movimenti e negli spazi sociali e prosegue poi in quella che Ezio Manzini definisce “politica del quotidiano”. Dentro i processi di innovazione culturale e riqualificazione urbana, di gestione generativa dei conflitti e di ibridazione delle identità e delle culture. Negli ultimi anni ha raccolto in un blog (pontidivista.wordpress.com) le sue riflessioni politiche.

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