
Siamo dentro la Guerra Grande, e non marginalmente
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È impossibile sottrarsi dal commentare l’ultimo volume di Limes, “I Signori degli Oceani”, e in particolare l‘editoriale di Lucio Caracciolo, “Il posto di nessun luogo”, che andrebbe letto insieme ad un articolo di Matteo Giurco, “Stelle e strisce su Trieste”, dedicato ai plurisecolari contatti tra Washington e Trieste.
Difficile riassumere i diversi piani nei quali si sviluppa l’editoriale, ma almeno alcuni vanno evidenziati per introdurli ad una prima lettura politica regionale e per metterli in memoria pro futuro.
Tutto parte dalla “Guerra Grande” in corso, così Limes l’ha definita, e dalla definizione delle sue origini, natura e sbocchi. Affermazioni e giudizi che detti da altri sarebbero equiparati a bestemmie in chiesa. Conflitti geopolitici fra Stati ed imperi che si presentano quasi indifferenti rispetto ad uno dei caratteri con cui invece ci vengono solitamente interpretati e proposti: quello fra democrazie e autoritarismi. Il ruolo del mare nel deperimento della strapotenza americana e della sua narrazione, per cui la “libertà di navigazione” nasconde il suo ruolo di controllore degli stretti strategici degli oceani e dei mari mondiali, per quanto ormai non più compiutamente. Un senso di pericolo imminente che traspare nel testo più volte: “Nella Guerra Grande scorgiamo i segni d’un bellicoso tramonto a stelle e strisce, dai seguiti imprevedibili”, oppure “La sua ultima battaglia, forse più vicina di quanto concepiamo, America la combatterà sulle onde”. Infine la certezza che non si tornerà al mondo di prima perché la pace è finita e quello a venire sarà un mondo diverso.
Seguono quindi ragionamenti, riferimenti e spunti su antiche e durevoli costanti storico-geografiche che legano Mediterraneo, Mar Rosso e Oceano Indiano. Dal prefetto romano d’Egitto Gaio Elio Gallo al ministro degli esteri (1881-85) del Regno d’Italia Pasquale Stanislao Mancini; prima e dopo l’apertura del Canale di Suez che trasforma il Mediterraneo da mare chiuso in Medioceano; per finire con la perdita stessa di ogni memoria geopolitica da parte delle èlite italiane dell’ultimo trentennio, prive di ogni riferimento storico e relazionale autonomo verso l’oltremare non solo mediterraneo.
“Forse con la cultura non si mangia. Con l’ignoranza però si fa la fame”, continua così la polemica di Limes contro ceti politici privi di visione geopolitica “nazionale”, visto che “non è mimando la geopolitica delle cannoniere che si riacquista libertà di navigazione nel Medioceano”.
Trieste e il Medioceano
In questo scenario compare Trieste e la sua storia (e in via del tutto incidentale in un paio di passaggi anche la Regione). In fondo all’Adriatico, insieme al canale di Sicilia uno dei due punti che danno all’Italia centralità geofisica, però “centralità che non ha nulla di soggettivo”… Così Caracciolo sintetizza il suo pensiero: “A chi vuol godere della migliore prospettiva italiana sul mondo suggeriamo di affacciarsi dalle bifore che ornano il campanile della cattedrale di San Giusto, troneggiante sul Golfo di Trieste”, “Angolo cieco per noi. Pietra angolare per gli attori che contano”, che “esalta il ruolo di Trieste quale scalo baricentrico per la Nato e mercantile per i traffici fra Asia ed Europa.”
La storia quindi è ritornata a Trieste nel 2019 con le avances cinesi sul porto, a cui replica una tarda ma infine decisa reazione statunitense che disvela la doppia valenza del porto: qui la Via del Cotone si intreccia con l’Iniziativa dei Tre Mari.
Ritorna cioè modificata e rafforzata la funzione, potenziale, di scalo commerciale internazionale sulle rotte oceaniche con la Via del Cotone alternativa alla Via della Seta. E si affaccia la funzione di snodo militare della presenza USA in Europa a supporto, uno dei tre perni anzi, del relativamente nuovo modello di contenimento della Russia. “Progetto polacco- americano schiettamente strategico dietro velatura commerciale” che unisce Stati dell’Est europeo (in larga parte sono gli ex partner del Patto di Varsavia a guida sovietica) del Baltico, del Mar Nero e dell’Adriatico. Idea polacca della prima metà del ‘900, “Velleità per Washington. Da però incentivare in vista del molto più pratico obiettivo di strutturare il fronte Est della Nato in funzione antimoscovita e agganciarvi prima o poi Ucraina, Georgia e Moldova”. Un triangolo geopolitico con ai vertici Danzica, Costanza e Trieste.
“La “città in alto a destra” (così vista dagli italiani) verrebbe così elevata a piattaforma girevole transoceanica. Se compiuto tale progetto comporterebbe per noi una rivoluzione geopolitica. La nostra collocazione nello spazio mondiale ne sarebbe ridisegnata.” Dura, amara e non nuova la considerazione di Caracciolo: “Ma siamo in Italia, dunque non se ne discute, al più vi si accenna nei riti comandati”.
Ulteriori passaggi significativi. Il primo è quello di diventare parte attiva non solo della Via del Cotone ma anche del Trimarium perché “Solo un paese totalmente spaesato può snobbare un progetto che riguarda il nostro Adriatico e i mari vicini.”
Il secondo quello per cui mentre fin qui “Roma (ma oggi si scrive Washington) locuta, causa soluta”, oggi che i progetti degli States divisi in due anche dal voto recente sono alquanto incerti, bisogna esercitare un proprio ruolo in primo luogo individuandone uno. A partire dalla giusta lettura degli obiettivi americani (“Per l’America l’aspetto militare surclassa il commerciale”), poi dalla comprensione che i due progetti sono entrambi sia militari che economici, quindi intuendo il ruolo che l’Italia vi può giocare, sapendo che “Finchè la nostra sicurezza sarà totalmente affidata agli Stati Uniti, invertire l’ordine dei fattori sarebbe peggio che criminale: irrealistico”. E aggiungendo che bisognerà ben prendere atto della “indisponibilità del leader a garantire tutto lo spazio imperiale”.
Trieste americana
Saltiamo altre, interessanti, considerazioni storiche, culturali ed economiche, relative al porto di Trieste, ai suoi rapporti con l’Europa e al modo con cui la “vede Roma” e arriviamo al che fare?
Caracciolo fa tre ipotesi. La prima, citando una brochure panique del triestino Paolo Deganutti, iperautonomista a sfondo indipendentista con il rispolvero del Territorio Libero. “Triestinità e commerci uber alles”.
La seconda “la proposta americana che bilancia l’accento militare con la via del cotone e corposi investimenti in Friuli Venezia Giulia. Giù le mani cinesi e russe dallo snodo adriatico dei Tre Mari, sia dirette che indirette (tedesche, ungheresi, austriache). Nato first”.
La terza sarebbe “la non-soluzione all’italiana. Ficchiamo la testa sotto la coperta…ci immaginiamo sicuri sotto l’ombrello a stelle e strisce, amiamo lo zio Sam però traffichiamo con tutti, nemici dell’America compresi. Accettiamo un grado di militarizzazione del porto il meno visibile possibile, mentre sviluppiamo le connessioni con il retroterra mitteleuropeo e non solo”.
Caracciolo sceglie la seconda via, “meno irrealistica, che salva l’unità nazionale mentre aggiorna il nostro rapporto con l’America”. Serve riorientare su base bilaterale il rapporto con gli USA, “da fondare sullo scambio non troppo ineguale fra interessi italiani e americani quando e dove convergono, anziché sull’inerzia che non serve a nessuno, nemmeno a Washington. Il pacchetto militar-economico elaborato dai serbatoi di pensiero strategico a stelle e strisce merita di essere valutato con lente nazionale. Obiettivo: ancorare Nessun Luogo (Trieste) all’Italia anche via America. Affermarci soggetto attivo e aperto al mondo in quel che resta del nostro Occidente”.
Trieste e Trieste
Fin qui Limes, che dichiara di voler continuare a lavorare e approfondire questi temi. Cosa che dovrebbero cominciare a fare, e meglio se non in segrete stanze, anche le comunità ed i soggetti sociali e politici del Friuli-Venezia Giulia.
Una delle prime considerazioni, infatti, è che l’insieme della nostra regione sta ritornando a fare i conti con una delle costanti della sua storia del vicino ‘900: la guerra, calda o fredda che sia, e gradi diversi di militarizzazione del territorio e delle popolazioni a seconda dei ruoli e dei modelli di confronto militare e ideologico.
Tramontato da poco il modello delle mille servitù e caserme, della soglia di Gorizia e dell’autodistruzione nucleare, ci si stava abituando all’idea che fosse solo ad Aviano che sopravviveva un ruolo militare del nostro territorio. Ruolo ormai scontato, certamente invadente per la presenza di armamenti nucleari, ma che dopo l’evento dei bombardamenti della Serbia sembrava ridotto alla logistica e dimenticato almeno fino ai continui e crescenti rombanti voli dall’autunno del 2021 ad oggi.
Invece no, sempre citando Caracciolo, “Qui Pentagono e CIA stanno consolidando le basi di Aviano e Vicenza con installazioni di intelligence fra le più importanti in Europa, parallele a quelle che dalla Sicilia dominano l’omonimo Stretto. Per collocazione geopolitica, connessioni con il cuore del continente e profondità dei fondali, lo scalo di Trieste è inteso porto militare cruciale nella linea Danzica-Costanza quindi per l’oltre Suez.”
Quindi, e ancora citando Caracciolo, sarà il caso di evitare di pensare che gli aspetti militari siano solo affare dei tecnici e di chi opera “curando di non farne oggetto di pubblico scrutinio”. Di evitare che siano “Esercizi da Stato profondo. Alchimie che scatenano i dietrologi.”
Una presa d’atto maggiore di questo contesto sarebbe la premessa indispensabile per collocare meglio i viaggi oltreoceano di alti rappresentanti regionali, valutare episodi e fatti già accaduti e citati negli articoli di Limes, ridefinire potenzialità e ruoli non solo del porto di Trieste ma della stessa Regione, per un’autonomia che per aspirare ad essere speciale non può guardarsi l’ombelico ma essere cosciente del contesto. Direi che ciò dovrebbe avvenire anche in assenza di una compiuta politica statale, perché ci riguarda direttamente.
Anche per questa via sarà possibile rassicurare Caracciolo che teme, nel caso peggiore, che un mancato progetto dello Stato possa ridiventare una sorta di rinato Territorio Libero, per di più “Isola galleggiante entro una Regione a statuto molto speciale”, in una ammucchiata di regioni speciali tali a “causa di imperativi antisovietici della guerra fredda” e che insieme a regioni non ancora speciali ma che “valgono il 40% del PIL” e potrebbero “spezzare l’Italia”, con una “ripresa in grande stile delle geopolitiche regionali praticate da taluni dirigenti furlan-giuliani nel fuoco delle guerre di successione jugoslava a sostegno della secessione di Slovenia e Croazia. Con sponde bavaresi e austriache. Mentre Andreotti e De Michelis puntavano disperatamente sulla “Jugoslavia unita e democratica”.
Nel caso sbagliare è umano, ma sarebbe diabolico se a conoscere, capire e decidere fosse solo “Roma” e non anche “il Friuli-Venezia Giulia”.