Una legge-civetta e l’autogoal del referendum, ma altro è il progetto di trasformazione della democrazia
Indice dei contenuti
Quale sia il progetto politico a breve-medio termine dell’attuale maggioranza politica che governa l’Italia appare evidente. L’approvazione della legge sulla autonomia differenziata spalanca le porte al più rapido possibile percorso parlamentare per la modifica costituzionale relativa al Premierato e quindi alla definitiva trasformazione della Repubblica. Il progetto Renziano di accentramento del potere governativo troverà così una ben più radicale soluzione e, con molte probabilità, il corpo elettorale in un referendum avrà perso molti degli anticorpi di difesa democratica che hanno portato al risultato del 2016, e tutto sommato potrebbe non disdegnare di identificarsi nella semplificazione del “capo”.
Il parlamento quindi ridotto a un consiglio comunale obbediente al Sindaco d’Italia. Quasi come i consigli regionali dopo l’elezione diretta del Presidente. D’altronde è dagli anni 90 del secolo scorso che abbiamo imparato a votare il leader o la persona e non una proposta politica o amministrativa. Per cambiare in corso d’opera, la politica non conta nulla, eventualmente ci può pensare, almeno per ora, la magistratura.
Ci sarebbe da approfondire sul perché ai tempi della “fine della storia” la sinistra del “socialismo neo liberale” si sia convinta che democrazia significa governo efficiente e rapido piuttosto che confronto di idee e di interessi sociali. I flop del nuovo millennio sono giunti inaspettati e quella “nuova democrazia” è stata molto meglio interpretata dalla destra degli imprenditori della paura, nella cui moderazione oggi speriamo.
L’autonomia differenziata come facile target di propaganda
La sinistra immagina la battaglia contro l’autonomia differenziata come il primo tempo di una partita che poi forse giocherà fino ai supplementari per poter difendere i valori base della democrazia e della Costituzione. Cosa a cui peraltro ha rinunciato in lunghi anni di “riforma” delle leggi elettorali nella convinzione che la conquista del governo fosse l’asse fondamentale di ogni azione politica.
Per fare questo oggi però ritiene che il consenso popolare possa derivare da una accentuazione propagandistica dei limiti di una legge squilibrata e di fatto inattuabile, in contenuti e in procedure, attraverso la mitizzazione di conflitti, nord contro sud, ricchi contro poveri, e la riproposizione garantista della efficienza di un percorso di centralizzazione dell’amministrazione dello stato.
Ne nasce così, anche nel cosiddetto “campo largo”, un giudizio netto di fallimento della esperienza regionale dello stato repubblicano che non tiene conto dei risultati reali delle diverse storie, che interpreta le “specialità” come privilegi dispendiosi, che attribuisce ai sistemi istituzionali locali i dati di fatto del peggioramento di molti servizi pubblici e magari della loro privatizzazione, quando questo invece è il prodotto di politiche generali dell’intero stato (e dell’intero arco politico) verso percorsi di liberalizzazione e di creazione di mercati in luogo dei servizi pubblici stessi.
Nella storia dello stato repubblicano l’atteggiamento ondivago delle forze politiche costituzionali sul tema del rapporto tra centralità dello stato e territorio è stato quasi sempre determinato da una mancanza di adeguata cultura “federalista”, e dal gioco di interessi che le circostanze del momento facevano prevalere.
Va peraltro dato atto ai “padri costituenti” di essere riusciti ad interpretare le diversità che particolari fatti storici imponevano con la definizione degli spazi della “specialità” che, tutto sommato, hanno permesso di dare vita ad esperienze che potrebbero tranquillamente diventare esempio per molte situazioni internazionali.
Non è certo un rigurgito di saggezza l’amore centralista a cui stiamo assistendo. L’emergere di questa cultura politica a mio parere porta a considerare l’iniziativa della sinistra come un vero e proprio autogoal che nulla oppone alla organica visione sovranista dello stato di Fratelli d’Italia. Per adesso si incassa il via libera della Lega per l’attivazione di sentieri perigliosi in aree paludose, poi sarà il Premier a illuminare il giusto cammino.
I riflessi speciali per il Friuli-Venezia Giulia della campagna anti regionalista
C’è un ulteriore elemento che riguarda il Friuli-Venezia Giulia. Al di là della contingente floridezza di bilancio che permette di offrire l’obolo dovunque ci sia profumo di consenso. Una analisi disincantata della condizione della Regione, nei suoi aspetti economici, sociali, demografici, porta a giudizi di insufficienza legati sia a pratiche limitate (in termini di visioni di prospettiva) , sia ad una vera e propria crisi di identità rispetto al senso della specialità stessa. C’è, ma nulla dice che dovrà sempre esserci.
Di fronte ad un passato sentito come glorioso, oggi ci si continua a riavvitare sulla incapacità di costruire un sistema territoriale di enti locali. E incredibilmente in 10 anni ci si rivolge per due volte al Parlamento chiedendo soccorso in contraddittorie modifiche costituzionali.
Servirebbe un ricco confronto di idee e di prospettive politiche che diano un senso ad un percorso autonomista che vada al di là della riduttiva interpretazione di una Piccola Patria da blandire e dei destini globali della città porto-emporio di Trieste.
Purtroppo una vittima sicura dell’attuale confronto politico sulla autonomia differenziata, è proprio determinata dalla ormai granitica convinzione nell’opinione pubblica italiana (sia o meno di tendenza progressista) che le cosiddette “specialità regionali” storiche sono un “privilegio” da annullare e non uno strumento da utilizzare ed aggiornare. Neanche Zaia ricorda che nel 2017 l’elettorato della Provincia di Belluno votò quasi unanimemente (con valide motivazioni) la richiesta di una propria particolare autonomia alpino-dolomitica.
Gli articoli della Costituzione dal 116 al 119 e le leggi costituzionali degli statuti delle “speciali” hanno definito set di competenze talvolta non chiaramente identificabili soprattutto nelle specifiche sottostanti funzioni legislative ed amministrative. Da qui il facile imbattersi in attribuzioni trasversali (riferibili a più competenze) su cui oltre al sorgere di contenziosi possono facilmente essere giocati spazi di interesse politico. Nella storia del Friuli-Venezia Giulia si vive da 60 anni la supremazia tra “caccia” (potestà primaria della Regione) e tra “tutela dell’ambiente” (prevalente interesse statale sull’avifauna). Lo stesso vale per il confronto tra “urbanistica” e “governo del territorio” nelle sue plurime declinazioni dopo il 2001.
Se poi andiamo nel concreto delle richieste odierne del Friuli-Venezia Giulia a cosa ci si riferisce quando si ritiene di poter gestire l’istruzione, la Soprintendenza e gli uffici giudiziari? E la convinzione generale che le Regioni non sono adatte a governare la sanità a quale situazione guarda, visto che è legiferato dallo Stato l’attuale quadro legislativo su cui le Regioni adattano la loro funzione amministrativa? Mancano i LEP là dove sono previsti e chiunque si sia occupato di “spesa pubblica regionalizzata” e/o di residui fiscali riconosce in quei conti una forte inattendibilità.
Nella pratica quotidiana del “potere regionale” dall’entrata in vigore dei trattati europei per le “speciali”, e dalle modifiche dell’art. 116 per le “normali” il vero arbitro del sistema è stata la Corte Costituzionale, sicuramente quasi mai soggetto terzo nei conflitti interpretativi tra Stato e Regioni. E’ perciò razionale pensare che dal guazzabuglio odierno si possa uscire solo con una riscrittura dell’intero Titolo V. Ma con quale prospettiva politic di interpretazione per il futuro del rapporto tra Stati, Unione Europea e territori?
Nel frattempo la specialità del Friuli-Venezia Giulia non è solo quindi la possibile vittima della bulimia di un Veneto che vorrebbe “rapinare” 24 possibili materie di competenza, di cui per gran parte la nostra Regione non dispone (pur se in realtà non potrà che trattarsi di funzioni legislative ed amministrative specifiche), ma è soprattutto un possibile capro espiatorio oggi considerato dotato di privilegi ingiustificati. Priva di difese e di strumenti di ricatto, la nostra autonomia ben poche possibilità avrà di costringere governi e parlamenti nel definire le forme aggiornate della sua eventuale futura “specialità”. E la finora misera applicazione delle “norme di attuazione” pur evitando le insidie del Parlamento non ha avuto e non ha certo prospettive gloriose.
Concludendo…
Non entro nel merito della praticabilità tecnica del referendum abrogativo della Legge Calderoli. La mia fiducia nella dottrina giuridica dei costituzionalisti può adattarsi a qualsiasi “congiura”. Come modesto interprete di una “critica” cultura autonomista che la storia ha sedimentato nelle terre che oggi fanno parte della Regione Friuli-Venezia Giulia non posso quindi né condividere le dovute esternazioni a favore della Legge Calderoli da parte di esponenti di maggioranza dell’attuale potere politico (per i limiti ed i rischi che può creare nella approssimata applicazione dell’art. 116 della Costituzione), né aderire ad un percorso di una gioiosa “macchina da guerra” messa in piedi dal fronte di opposizione, proprio perché stravolge anche quanto di buono la vicenda repubblicana ha permesso di attuare sul terreno delle autonomie territoriali. Non mi alletta né il nazional-sovranismo né il giacobinismo populista, particolarmente in un momento in cui gli eventi storici dell’attualità inducono a diffidare delle iniziative degli stati e chiedono ampie cooperazioni condivise e maggiore consapevolezza e capacità di decisione democratica delle comunità territoriali.