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Numero 24 | dicembre 2024

Audace Rosa

Meloni e Nazioni sono di casa a Trieste


Tutto ricominciò con il ritorno di Trieste all’Italia nell’ottobre 1954. Le “mule” festanti accolsero i fanti, perlomeno quelle rimaste poiché un buon numero aveva approfittato della situazione e si era accasato con gli ufficiali americani. C’era un problema di occupazione per i dipendenti del Governo Militare Alleato di cui un bel po’ di “cerini” (*) se ne emigrava in Australia, anche, non si sa mai, per evitare postume vendette dai giovani “patrioti” precedentemente picchiati. Tanto per richiamare un ricordo personale, pochi anni dopo praticamente tutti i dipendenti della mensa universitaria erano ex GMA.

La Trieste degli anni 60, tenuta in piedi da qualche industria di stato, da traffici balcanici vari e da torrefazione di ottimo caffè sbarcato nel porto, era comunque tributaria del mito di fedeltà alla nazione italiana declinato sia in forme democratiche, esuli democristiani in testa, che in ribollimenti oscuri pronti a cavalcare negli anni successivi tutte le varie fasi della strategia della tensione. Gli sloveni autoctoni vivevano da separati in casa e meno si facevano sentire meglio era. Ricordo ancora l’indignazione di massa allorquando un socialista sloveno (del PSI) divenne assessore provinciale in una prima giunta di centro-sinistra. Va ricordato che all’epoca gli sloveni nel PSI erano considerati filo “titini”, e quindi tutto sommato non nemici dell’occidente, mentre quelli del PCI ben riorganizzati da Vidali erano di chiara fede bolscevica. 

Il Fondo Trieste, malgrado la nascita della Regione autonoma nel 1964, continuava imperterrito a premiare la fedeltà nazionale della città ed i suoi amministratori, esclusivamente cinque consiglieri regionali eletti a Trieste insieme a sindaco, presidente della Provincia e Prefetto, hanno avuto le vere chiavi della città. Qualcosa del Fondo Trieste, un “corpo separato” nel bilancio regionale, deve essere rimasto ancora in piedi ma i soldi vengono comunque da più canali e non mancano per qualsiasi iniziativa, come insegna l’ovovia.

Tutto viaggiava su tranquilli binari, i commercianti rifornivano di jeans i Balcani interi, la RAI era diventata la voce del “campanon” e annunciava le ricche pescate di sardoni, ma ecco che improvvisamente un governo Forlani firma il trattato di Osimo con la Jugoslavia chiudendo i contenziosi post bellici e addirittura firmando una integrazione industriale tra i due Stati. La città si ribella, a destra ma anche gran parte del mondo liberale e socialista, non esclusi i proto-ambientalisti preoccupati dalle potenziali devastazioni ambientali del Carso.

Ed ecco la Lista

Nasce la Lista per Trieste con il “melone e l’alabarda” nel simbolo e diventa maggioranza egemone della cultura politica della città. Il giudizio storico su quegli avvenimenti deve ancora ulteriormente essere raffinato, e devo dire che personalmente ho conosciuto persone di grande spessore culturale ed umano in molti rappresentanti di quel movimento politico. Quella frattura con il sistema politico italiano, non dettata da puro civismo o vetero-nazionalismo ma che esprimeva anche una reale autonomia di pensiero e di interpretazione storica, ha segnato non solo la vita della città in quel particolare momento ma poi (purtroppo) si è facilmente infilata nelle pieghe della vita politica italiana cogliendone soprattutto le opportunità clientelari e le derive “populiste”. Gli anni 90 decretano la fine dello spirito originale della Lista e il Melone viene assorbito nel Berlusconismo e suoi derivati, anche se a sinistra, si fa per dire, la figura emergente di Illy per una buona decina di anni ne recupera elementi di autonoma prospettiva.

Oggi i “meloni” della Lista sono scomparsi ma altri “Meloni” ne stanno cavalcando le spinte che il nazionalismo ha spesso evocato a Trieste, con le propaggini Adriatiche delle tante città e terre perdute. Il recupero in grande stile del 70esimo anniversario del ritorno all’Italia è stata l’occasione per l’indicazione di un cammino non ancora roboante, ma che va ricollegato all’attuale volontà della forza principale della maggioranza al governo di rinverdire i miti costitutivi di una identità nazionale quale base per uno stravolgimento sostanziale dello stato democratico in cui stiamo vivendo.

Il ritorno dell’Italia o il ritorno all’Italia?

E’ fin dal suo insediamento che il presidente Meloni ha cominciato a suonare il piffero con il gracchiante ripetere del termine “nazione” usato quasi sempre al posto di “Repubblica”: non come errore semantico ma come progetto di trasformazione dello Stato per condurlo nelle nebbie dei miti e delle riproposizioni storiche deformate da riletture proiettate agli obiettivi del giorno. E poiché questi obiettivi sono di accantonamento di molti spazi di democrazia e di costruzione di un nemico di abbattere rivoltando leggi e costituzione, appare evidente la pericolosità di una operazione che si nutre di un continuo avvicendarsi di paure a cui può porre rimedio solo un regime forte di accentramento del potere.

Cosa c’entra Trieste e il Melone dei tempi andati con le disgrazie di oggi, dove “nazione” e “interesse nazionale” vengono usati per coprire il vuoto di progettualità politica in tutte le dimensioni che possono esserne coinvolte?

Trieste (ben più di Trento a cui è unita dal noto ponte metaforico) è il simbolo di una devianza politico culturale che ha contraddistinto purtroppo sia la storia dello Stato italiano che quella di molte altre realtà. Il valore “d’uso” di una nazione non può essere legato alla potenza di una unità istituzionale che tutto comprende e domina, ma semmai alla pluralità delle sue espressioni ed ai processi di scambio e comunicazione che inter relazionano le sue espressioni. 

L’Italia è sostanzialmente una geografia al cui interno si è costruito un patrimonio “nazionale”, fatto di molteplici espressioni (culturali, scientifiche, artistiche, etc.) che proprio l’unificazione forzata ha represso mirando invece a conquiste e supremazie in una drammatica storia che va dal cosiddetto Risorgimento alla fine della II guerra mondiale. La competizione di potenza per “la grande proletaria” è stata la sua rovina che solo un timido processo di rilettura avviato con la Costituzione repubblicana ha cercato di limitare, senza peraltro riuscire ad iniettare quegli anticorpi di lettura storica che avrebbero potuto essere di insegnamento.

Ripensare la storia e le nazioni al “confine orientale”

Trieste e molte altre terre del nord est e dell’Adriatico Orientale, così come peraltro è avvenuto per il Canton Ticino, avrebbero potuto contribuire alla costruzione ed al rafforzamento della “nazione” italiana senza esserne conquistate da uno Stato capace anche di inciviltà e “genocidi”, come i fatti storici di fine 800 e del 900 hanno segnalato. Una “nazione” sana non si costruisce speculando sul sangue dei propri figli per ammantarsi di gloria, ma è il risultato di una continua azione di ricerca degli spazi di miglioramento della condizione umana nello svolgimento delle relazioni e nella ricerca di innovazioni utili alla coesione sociale.

Tutta la storia di “sviluppo” della nazione italiana a Trieste appartiene a dimensioni istituzionali non legate ai confini dello stato italiano ed è il risultato di relazioni complesse che sono state demolite dal demone del nazionalismo. La celebrazione delle conquiste italiane di Trieste è semplicemente il ricordo di un atto di autolesionismo. Senza un ripensamento della storia in questa direzione non si può costruire un dignitoso futuro, anche perché ogni nazionalismo trova (in particolare nelle zone geograficamente e nazionalmente complesse) i suoi imitatori opposti e contrari che non sanno comportarsi in maniera migliore.

Il cammino per una diversa declinazione del rapporto tra “stato e nazione” è forse ancora lungo ma senza riuscire a disaccoppiarne il ruolo dell’uno con le molteplici sfaccettature dell’altra, non si può sperare granché dal futuro.

(*) Trattasi del nomignolo popolare che identificava i componenti locali della polizia del GMA (Venezia Giulia Police Force), così chiamati in riferimento alla foggia del casco rotondo e bianco.

Giorgio Cavallo

Attivo in politica dai primi anni Sessanta del secolo scorso, è stato consigliere regionale di opposizione per tre legislature e per due mandati assessore all’Urbanistica e alla Mobilità del Comune di Udine, presidente regionale di Legambiente FVG negli anni Novanta e Duemila. Saggista, ha decine di pubblicazioni all’attivo. Collabora con testate di informazione locale su temi di attualità politica, sociale ed economica.

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