Sull’autogoverno della Carnia
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«Per fare una balla di fieno a Givigliana ci vuole tempo, fatica, sudore, che sarà, io credo, il duecentuplo di quello che serve per fare una balla di fieno a Mortegliano, e tuttavia una balla di fieno a Givigliana è necessario farla». Così, in un’intervista del 2005, Giorgio Ferigo. Diciott’anni dopo, i prati che Ferigo aveva in mente attorno a Givigliana sono molti di meno, progressivamente mangiati dall’avanzare del bosco. Poco ci manca che non ci sia più neanche Givigliana, se per paese si intende qualcosa che vada al di là dei mattoni e delle scandole, per pittoresche che siano.
Oggi come nel 2005 è necessario cercare ancora un pensiero nuovo e una nuova politica per la montagna friulana. Una politica che non sia la riproposizione stantìa ed irriflessa di modi di gestire il territorio e di governare la gente che poco o nulla hanno dato negli ultimi quarant’anni e ancor meno promettono di dare da qua all’orizzonte luminoso del 2030. Un pensiero che sfugga alla soffocante cappa di fraida rassegnazione che emerge dai discorsi di certi amministratori e si liberi dalle logiche invalse di una politica clientelare che dispone privatamente dei pubblici bilanci, dando centomila euro qua, un milione e mezzo là, senza visione, prospettiva o progettualità. Così come bisogna poter sfuggire all’«avellinizzazione» della montagna friulana: non si può immaginare che l’unica politica possibile per la montagna sia la deroga, che la soluzione siano l’agevolazione, il sussidio permanente, il contributo a pioggia. Questo non farebbe che creare una situazione di dipendenza, sia della montagna dalla pianura e dalla città, che se ne dovrebbero fare fiscalmente carico, sia dei montanari da parte di un certo modo di fare politica, che della clientela e del consenso personale ha fatto sistema.
Per poter immaginare qualcosa di radicalmente diverso bisogna andare alla radice delle questioni. E bisogna quindi partire innanzitutto da una constatazione circa la fondamentale alterità della montagna rispetto alla «mentalità delle pianure», una diversità che nasce dall’orografia, ma non finisce lì, si sostanzia in quello che gli uomini nei secoli hanno fatto di questo spazio altro, determinando le traiettorie storiche della nostra montagna. Le Alpi non sono semplicemente terre alte, diversamente pianeggianti o alternativamente urbane. La diversità radicale della montagna riguarda un diverso rapporto con lo spazio, nella consapevolezza di una dipendenza dal fragile equilibrio ecologico del territorio montano, ma anche un diverso modo di rispondere alle necessità di governo del territorio, individuando percorsi alternativi ed originali per far fronte a quelle problematiche che, in particolare con l’avvento della modernità industriale, hanno scardinato le forme tradizionali e secolari della produzione e dell’emigrazione stagionale.
Le Alpi non sono territori diversamente pianeggianti
Questa diversità del territorio montano si è tradotta storicamente in forme originali di governo del territorio e di gestione comunitaria delle risorse, dai peculiari rapporti feudali intercorrenti tra la comunità di Tolmezzo e la terra di Carnia ai beni comuni e demaniali, per arrivare fino alle esperienze cooperative del secolo scorso. Comunità, cooperazione, condivisione: questi i tratti distintivi della montagna, che non è riducibile per sua stessa natura a meccanismi di mercato – ammettendo che funzionino pure in pianura. La diversità radicale dell’ambiente montano, poi, non ha trovato né trova risposta nella mera estensione alla montagna di soluzioni tecniche di pianura, né nelle soluzioni tecniche si può trovare la panacea ai problemi che la montagna affronta. Non sarà la fibra ottica fino alle ultime case di Vinaio ad invertire traiettorie demografiche o di sviluppo. Se si può quindi individuare un tratto che ha profondamente caratterizzato la storia della terra di Carnia, pur nelle alterne dominazioni che si sono succedute, è la sua capacità di immaginare da sé cosa farne di questo territorio. La questione cruciale della montagna è quella dell’autogoverno. È necessario quindi riscoprire anzitutto il significato proprio dell’autonomia territoriale, un’autonomia, peraltro, che né storicamente né per le necessità attuali si è tradotta e si può tradurre in un insopportabile privilegio.
Autogoverno e autonomia significa innanzitutto riconoscere le differenze che comporta vivere e lavorare in montagna e adattare norme, requisiti, prescrizioni e servizi alla realtà delle cose. Una stalla a Raveo o una malga sul monte Terzo non possono essere chiamate alle stesse regole di un allevamento intensivo della bassa friulana, quando non della pianura belga; e un rifugio sotto il Clap Grant, ma anche un’osteria a Nonta, non devono essere ricompresi nella stessa categoria del caffè Contarena, così come un’azienda di Sutrio o di Ampezzo non sono equiparabili, per le condizioni in cui si trovano a lavorare, a chi si insedia a Casarsa della Delizia. Queste differenze sono ciò che legittima la necessità di un governo particolare della montagna, di un privilegio – se proprio bisogna chiederne con forza uno – che sia innanzitutto quello di poter decidere da sé di come declinare norme ed editti sulle peculiarità del proprio territorio.
Questa necessità di autogoverno si traduce, in pratica, nel mantenere in Carnia ampie deleghe e precise funzioni amministrative. L’attuale Comunità di Montagna, il cui statuto, raffazzonato e sostanzialmente inoperante, impedisce ogni attività organica di programmazione di area vasta e quindi di esercizio di un autonomo potere regolamentare, non funziona. Per come è ora strutturata, la Comunità si riduce al negoziato tra i ventotto sindaci, naturalmente portatori dei sacrosanti interessi delle loro rispettive comunità e non certo possibili fautori di un discorso collettivo, perché non eletti su una qualsivoglia piattaforma programmatica collettiva. La comunità di montagna non governa la Carnia, non è nulla più di un soggetto che coordina in parte l’attività dei comuni e svolge alcune limitate funzioni delegatele da questi ultimi. Non si capisce tuttavia dove, in che modo, in che forma, possa prendere corpo un’idea purchessia che riguardi il territorio tutto, se non forse nella figura di vertice del presidente. Dove, in che momento, in quale organo si potrà discutere un programma di governo del territorio? In che modo i cittadini potranno decidere quale visione della montagna possa incarnare meglio ciò che loro sperano, ciò di cui necessitano? Un sindaco è eletto sulla scorta di un programma che riguarda la sua azione amministrativa nel comune che è chiamato a presiedere e, per quanto generiche idee su cosa fare nei confronti della Carnia abbondino in ogni campagna elettorale, restano francamente lettera morta, al più vaghe indicazioni cui difficilmente si potrebbe dare sostanza o essere in disaccordo. Che da un’assemblea di secondo livello di sindaci possa emergere una visione politica per l’intero territorio è vana speranza. L’unico organo che potrebbe esprimere un certo grado di progettualità sarebbe –ancora – la presidenza, qualora questa non fosse ricoperta da uno dei sindaci e quindi parte anziché tutto, ma anche questo elemento di vertice, peraltro costitutivamente inadatto a garantire il confronto tra diverse espressioni politiche, sarebbe costretto a negoziare la propria linea con i sindaci stessi, per via dell’assenza di un mandato, di una legittimazione, di una forza propria.
Una Comunità non è una somma
La Comunità montana dovrebbe avere modo di essere organo rappresentativo di tutto il territorio, dare forma istituzionale al confronto politico su cosa fare di questa Carnia. Con i comuni, ma soprattutto al di là dei comuni, costituendosi necessariamente come organo altro, deputato ad altro. Non al coordinamento di ventotto teste, o quantomeno non solo, ma al governo di un territorio che non si può riassumere nella somma delle sue litigiosissime parti. La Comunità dovrebbe essere, in ultima analisi, un organo elettivo diretto su base proporzionale, con un’assemblea agile, che garantisca la rappresentanza delle valli e si doti di un organo di governo snello. In questo modo, si potrebbe sfuggire alla trappola dell’amministrazione del quotidiano e far sì che vi sia la possibilità di una politica comune e collettiva per il nostro territorio, garantendo quel confronto e dibattito pubblico, fuori e dentro gli organi ad esso deputati, che oggi manca tragicamente.
Alla Comunità montana dovrebbero essere riconosciute specifiche responsabilità di governo e precisi poteri regolamentari, con cui declinare localmente la norma-quadro regionale. In particolare, la Comunità dovrebbe occuparsi (quantomeno) della gestione dell’agricoltura e delle foreste, delle acque, della viabilità, delle attività produttive e dei servizi sociali e socio-assistenziali. Attraverso l’azione di autogoverno si darebbe così sostanza a quello che sarebbe un vero privilegio, che non va ad intaccare i diritti o le sostanze altrui, ma permette di fare in montagna ciò che serve alla montagna, nei modi in cui serve alla montagna, nei tempi in cui serve alla montagna. E non ridursi ad una pallida ombra di ciò che serve e si fa in pianura.
Politiche locali con responsabilità locali
E quindi una politica agricola e forestale che sappia pianificare l’utilizzo del territorio e lo sfruttamento delle risorse, che favorisca i consorzi tra proprietari e che miri a pratiche che possano superare la parcellizzazione e la frammentazione fondiaria. Una politica che promuova al contempo la collaborazione tra gli agricoltori e le società di esbosco per gestire in forma associata e cooperativa tutta una serie di servizi, ed in particolare alcuni aspetti amministrativi e i servizi logistici e di vendita, per ridurre i costi, aumentare la capacità di costituirsi come massa critica nei confronti degli acquirenti, ma anche favorire l’internalizzazione nelle strutture cooperative o consortili di alcune fasi di lavorazione dei prodotti che permetterebbero di trattenere sul territorio maggior valore aggiunto. Nel caso del bosco, per esempio, la gestione consortile della filiera della lavorazione del legname, proibendo ogni estrazione ed esportazione di legname grezzo da parte di soggetti foresti, permetterebbe di meglio valorizzare il prodotto, condividendo i costi di gestione delle segherie e i costi logistici del trasporto, e favorendo altresì quell’accumulazione di capitale che permetterebbe di insediare localmente anche ulteriori fasi della lavorazione.
Una politica della gestione delle acque che sia improntata al pieno controllo della risorsa idrica, sia quando utilizzata a fini idroelettrici, sia per il consumo. Questo controllo deve necessariamente essere sostanziale, nella forma di società di diritto pubblico che facciano capo agli enti pubblici espressione della montagna friulana, che possano trattenere e distribuire sul territorio i proventi dello sfruttamento idroelettrico, ma anche condividere gli oneri della manutenzione della rete idrica, promuovere i necessari investimenti e contemperare le esigenze economiche e di sviluppo con le considerazioni ambientali legate al mantenimento della naturalità dei corsi d’acqua, particolarmente importante anche in chiave idrogeologica.
Una politica dei trasporti che permetta l’integrazione delle valli e sia studiata per ridurre l’uso dell’automobile privata, garantendo agli anziani un servizio di trasporto a chiamata nei paesi e linee di fondovalle che facilitino i collegamenti con Tolmezzo e siano bene integrati con la stazione per la Carnia e con il trasporto ferroviario a Udine – che non è possibile che la corriera da Tolmezzo non riesca a garantire la coincidenza con i treni per Venezia. E una politica della viabilità che risolva i nodi critici che da tempo ci portiamo dietro, come la Tramba sulla Statale 52bis e allargando o rettificando la viabilità esistente, senza perdersi dietro progetti faraonici, ma rispondendo puntualmente alle necessità di una viabilità capillare, scorrevole, ben manutenuta.
Una politica economica che disponga la massima semplificazione burocratica per favorire l’insediamento delle imprese, che faciliti l’accesso a linee contributive e a bandi competitivi disegnati, gestiti ed amministrati direttamente dalla Comunità montana stessa assieme al consorzio industriale, che sostenga il privato nel consolidamento delle sue attività, anche attraverso strumenti di credito pubblico che siano pensati appositamente per il territorio e siano gestiti localmente.
E una politica socio-assistenziale che sappia essere veramente capillare, che possa far conto sull’ospedale di Tolmezzo e sappia fare sistema di un terzo settore vivo e sempre presente per il suo territorio. Di modo che i servizi essenziali possano essere garantiti a tutti, in egual modo, con la stessa attenzione. Anche ai più fragili, anche se vivono a Sauris.
Queste non sono che idee appena abbozzate, non vogliono essere un programma né una direzione, sono idee su cui si potrebbe parlare molto ed essere anche in disaccordo. Tuttavia, anche nel caso fossero accolte con disaccordo, resta un punto fondamentale: c’è bisogno di pensare una politica per la Carnia, di avere un luogo dove discuterla – e dove scannarsi, se necessario. Poi magari di questa libertà non sapremo bene che cosa farne, o peggio, ne faremo stracci, ma almeno sapremo che sarà per causa nostra e non potremo più incolpare il destino, la pioggia, Trieste.