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Numero 22 | 8 novembre 2024

Palazzo Provincia Udine
Palazzo Antonini-Belgrado, già sede della Provincia di Udine.

Province sì, Province no, Province boh…


“Mentre stiamo andando in stampa…”

Il 15 febbraio anticipazioni di stampa dei quotidiani locali annunciano la volontà della maggioranza regionale di metter mano ai mandati dei sindaci e alle regole elettorali. Se i sindaci di Pordenone e Monfalcone andranno a Strasburgo la durata della loro amministrazione, con i vicesindaci in carica, verrebbe prolungata oltre la scadenza attualmente prevista del 2025; l’applicazione del terzo mandato per i sindaci (tutti?) anche su scala regionale; una modifica non marginale sulle norme per l’accesso al ballottaggio nel caso di secondo turno per i Comuni sopra i 15 mila abitanti che sarebbe consentito non più se il primo candidato non supera il 50%, ma solo se non supera il 40% dei votanti.

L’ultimo obiettivo, infine, sarebbe quello di dar vita ad un unico turno elettorale in cui si voti contemporaneamente per la Regione e per tutti i Comuni.

Siamo al plebiscito, con l’aggravante che, visto il costante astensionismo, a decidere per tutti e per decenni, se non per ventenni, sarebbero gli eletti dal 41% del 50% dei cittadini e delle cittadine.

… si è sparsa la voce che Putin abbia già incaricato la Duma di mandare una delegazione in Friuli-Venezia Giulia… ma è certamente disinformazione preelettorale…

Province sì, Province no, Province boh…

A maggio andranno al voto 113 Comuni della nostra regione: 81 a Udine, 15 a Pordenone, 14 a Gorizia e 3 a Trieste. Nessuno di questi supera i 15 mila abitanti e non vi saranno quindi secondi turni.

Al di là del lavorio politico per costruire le liste e definire i programmi, esiste, per più di un Comune, l’incertezza determinata dalla possibilità di consentire un terzo mandato che potrebbe arrivare dal Parlamento, dove la Lega in particolare, ma anche altri partiti hanno depositato proposte o emendamenti in tal senso.

Anche qui conviene recuperare un po’ di memoria per costruire un giudizio.

Il sindaco viene eletto direttamente e personalmente dal voto dei cittadini a partire dal 1993, e all’epoca questo rappresentò uno dei punti di svolta del sistema politico ed istituzionale italiano. Erano previsti un limite di due mandati consecutivi e la durata in carica per 4 anni.

Nel 2000 la durata fu prolungata a 5 anni. Nel 2014 i mandati furono prorogati a 3, ma solo per i Comuni fino a 3 mila abitanti. Nel 2022, infine, con nuova modifica del Testo Unico per gli Enti Locali, ulteriore innalzamento del limite a 5 mila abitanti.

Recentemente l’ANCI ha chiesto di eliminare il limite dei 2 mandati per tutti i Comuni. In particolare la proposta della Lega va in questa direzione.

Da notare che la Sardegna, Regione a statuto speciale, ha legiferato in materia nel 2022 estendendo il numero di mandati consecutivi possibili a 4 per i Comuni fino a 3 mila abitanti. La Corte Costituzionale, però, ha respinto la legge principalmente riaffermando la competenza esclusiva dello Stato in materia.

Il ritorno del podestà?

Dalla sentenza, però, secondo alcuni commentatori emergerebbero altre valutazioni significative: la previsione di un tale limite ai mandati si presenta quale «punto di equilibrio tra il modello dell’elezione diretta dell’esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva»: sistema che può produrre «effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive, suscettibili di essere alterate da rendite di posizione». La Corte inoltre sembra mettere in guardia il legislatore rispetto a modifiche che possono apparire marginali, ma che tali non sono. Passare da un limite di 2 mandati a uno di 3 se non addirittura di 4 vuol dire estendere di molti anni la possibile permanenza al potere di una unica figura.

In molti dei più piccoli fra i Comuni della regione chiamati al voto sembra che, al momento, ci siano difficoltà a trovare candidati e stiano prendendo piede ipotesi di liste uniche “dentro tutti, chi ci sta ci sta”. Il risultato sarebbe che molti Comuni, tendenzialmente in aree montane, si ritroverebbero con un sindaco che può restare in carica per 15 anni, e senza nemmeno una minoranza di controllo.

E se è vero che le funzioni effettivamente esercitabili in un piccolo Comune sono sempre di meno, è altrettanto vero che il Comune resta ancora spesso l’unità di base non solo per erogare servizi e concedere autorizzazioni individuali, ma anche il primo tassello per definire convenzioni e collaborazioni di scala più ampia oltre che per definire i confini degli enti intermedi.

Resta pienamente aperta ed anzi aggravata la crisi ed il “deficit” di democrazia in tante comunità locali, ma si vuole estendere a tutti i Comuni una deroga pensata e mirata per supplire ad un deficit di partecipazione, imputato alla ristretta base elettorale. Quali motivi ed obiettivi di queste richieste? Non ci sono molte tracce di questo nel dibattito pubblico, forse, si spera, ve ne saranno nelle relazioni delle proposte di legge parlamentari, ma resta il dubbio che le proposte abbiano motivi di partito da un lato, poiché la Lega intende salvaguardare oltre ai propri sindaci anche i propri presidenti di regione dalla concorrenza di FdI, e motivi “corporativi”, ci si passi il termine, sul versante dell’ANCI che sempre più è l’associazione dei Sindaci.

L’informazione e il consenso dei cittadini, mai?

L’altra partita pendente in Parlamento e che riguarda la nostra Regione è quella del ripristino dell’ente intermedio fra Regione e Comuni nell’architettura del sistema delle autonomie regionali. Procedimento avviato su iniziativa del Consiglio regionale ed il cui iter è agli inizi in Parlamento. Questa si intreccia ad altra proposta di riforma più generale che riguarda la reintroduzione dell’elezione diretta per il Presidente ed il Consiglio provinciale, abrogata nel 2014. In sintesi con la prima modifica dello Statuto regionale si ritorna all’istituzione di rilievo statutario di enti intermedi che saranno poi definiti con legge regionale per denominazione, superficie e competenze, ma non saranno di elezione diretta. E lo potranno essere solo se sarà approvata anche la seconda modifica che riguarda un principio generale dell’ordinamento delle autonomie locali al quale la nostra autonomia speciale deve uniformarsi.

Anche questo passaggio istituzionale, avvenuto in sede regionale nel 2023 alla fine della passata Legislatura, è stato consumato “nel silenzio”, fra gli addetti ai lavori.

Ben venga dunque la proposta, apparsa pochi giorni fa sul Messaggero Veneto, avanzata dall’associazione Terza Ricostruzione, che chiede di indire un referendum consultivo regionale per sottoporre al voto popolare qualche quesito che indirizzi la successiva attività legislativa sull’ente intermedio di area vasta. Ritorno alle Province? Avvio della città metropolitana? Riconoscimento di un riferimento istituzionale del policentrismo friulano? Pluralità di formule legate ai diversi territori regionali? Di elezione diretta o di emanazione dei Comuni? Con quali funzioni?

Lo strumento per realizzare la consultazione è disponibile, con la Legge regionale 5 del 2003, così come, in assenza di tale volontà ad utilizzare il referendum consultivo, la stessa legge prevede l’istituto della proposta di legge di iniziativa popolare per sottoporre un testo al voto del Consiglio.

Non si tratta di questioni da azzeccagarbugli, ma di evitare per l’ennesima volta le soluzioni a colpi di maggioranza, di modalità per animare un dibattito popolare e democratico su temi forti per il buon funzionamento del sistema regionale delle autonomie, condizione per la qualità dei servizi ai cittadini singoli ed associati, alle imprese, alle sfide dell’immediato futuro, oltreché – quasi un a priori – dimostrazione di vitalità democratica di una comunità, nelle sue diversità.

Per un referendum consultivo sulle nuove “Province”

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