Nova Gorica Gorizia 2025. (Ri)cucire il diviso
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La presenza di due unità urbane nello stesso territorio, attaccate una all’altra, pur divise da una frontiera, non è affatto un fenomeno presente solo qui. Nonostante questo, la divisione del territorio unito ed omogeneo con una linea di frontiera così artificiale, rende questo spazio comunque particolare. Non ci fu affatto la divisione della città in senso stretto (perché prima del conflitto ce n’era una sola), ma la divisione dell’intero territorio. La città gemella nacque solo dopo, in conseguenza della nuova realtà.
La parte occidentale, compreso il centro urbano di Gorizia, rimase in Italia, mantenendo il suo ruolo di capoluogo della zona (pur con un retroterra ridotto ed impoverito e senza la ferrovia con l’imponente edificio della Stazione della Transalpina), mentre la parte orientale rimase priva di una città che assumesse il ruolo di un centro economico, culturale ed intellettuale. Fu questo il motivo principale per cui allora il governo decise di costruire un centro urbano nuovo, che un po’ per motivi spaziali, ma ancor di più per l’orgoglio e per la determinazione di farsi vedere anche “oltre”, costruì la nuova città (il cui nome Nova Gorica ha significati forti e semplici) proprio accanto alla “vecchia”, quasi a specchiarsi oltre la nuova linea del confine italo-jugoslavo.
Non fu, come già detto, la divisione della città preesistente, ma la costruzione di un’unità nuova. Rimasero ovviamente tanti legami e tante famiglie ed amici divisi, però presto dovettero cominciare a condividere il loro spazio con i neo-venuti provenienti sia dalle zone limitrofe che da quelle più distanti. Non era un fenomeno così radicale come per esempio in alcune zone d’Istria, letteralmente svuotate, però c’era. I motivi delle migrazioni verso entrambi i centri urbani erano molti: a Nova Gorica si cercava tutto – lavoratori ed operai – che spesso venivano dai paesi dell’area, ma anche gli altri mestieri, cioè gli insegnanti, ingegneri, medici, che venivano spesso dalle zone più lontane della Slovenia ed anche dalle altre repubbliche di Jugoslavia. A Gorizia, accanto ai motivi di lavoro, ci fu anche il motivo politico ad introdurre in questa zona di “tamponamento” le persone provenienti dalle zone di conflitto (Istria, Dalmazia) che – sovente senza accorgersi del quadro globale del ventennio fascista e della guerra – portarono con sè le storie umane dolenti e tragiche che risultarono in ostilità nei confronti dell’elemento slavo in città ed in zona.
Oltre ai due sistemi politici diversi si formò un “potpourri”, un “melting pot” di gente, di storie e provenienze. Non si trattava esclusivamente di una sola popolazione divisa, ma di più popolazioni, trapiantate nel territorio goriziano e provenienti da altrove. Ci voleva (e ci vorrà!) un bel po’ di tempo per un conurbio goriziano per ricrearsi una nuova identità.
Ricordi di confine
Vorrei condividere su questo punto i miei sentimenti molto personali riguardanti il territorio dove sono nato, cresciuto e vissuto quasi tutta la vita. La mia autocreazione di un’identità goriziana fu tutt’altro che semplice. Da bambino ovviamente sapevo che c’era qualcosa anche dall’altra parte. Già lo sguardo dal balconcino della nostra casa a Šempeter pri Gorici (S. Pietro) dava su una città che sembrava immensa e sconosciuta. Quando chiesi a mio padre che cos’era, mi rispose: è l’Italia. A volte ci andavamo con la mia mamma. Dovevamo mostrare i documenti al confine e poi ci infilavamo nei negozi con i vestiti, i dolciumi ed altre cose necessarie. Una volta chiesi alla mia mamma se “questi Italiani” fossero dei talenti per le lingue, visto che tutti parlavano lo sloveno con lei. Lei mi rispose di no, che infatti erano di nazionalità slovena, ma cittadini italiani. Ed io ho ribadito di no, perché tra di loro spesso parlano in italiano. Le risposte e domande furono forse troppo difficili per un bambino delle prime elementari, però è da lì che ho cominciato a capire di essermi trovato in una zona di bordo, di scontro, del confinamento delle due culture.
I miei nonni mi raccontavano sovente le storie di loro infanzia. Erano i racconti tristi, intracciati con la povertà e con i ricordi dolorosi del ventennio fascista. Mi raccontavano dei maestri di scuola che gli sputavano in faccia o li facevano stare con le ginocchia nude sul sale se li sentivano parlare in sloveno. Ci furono poi anche i racconti di guerra, soprattutto dei battaglioni speciali di lavoratori in Sardegna dove furono convocati i ragazzi di etnia slava, compreso mio nonno, dove spesso lavorarono in condizioni non degne degli esseri umani. Mio nonno ebbe poi un dolore immenso, poiché non vide mai più suo fratello maggiore, convocato alle armi, che dopo essere stato ferito in battaglia in Libia, sopravisse alla guerra, rimase in Italia dove poi morì assai giovane, però non gli fu mai permesso di vedersi l’un l’altro. Rimane solo una scatola di lettere e di fotografie che tuttora conservo.
Le amare storie della loro gioventù mi davano la conoscenza dell’accaduto e del mondo oltreconfine, ma nonostante nella casa dei miei nonni si guardasse il Tg1 ogni giorno, si ascoltasse il festival di Sanremo e che dopo pranzo c’era sempre l’ora per le soap opere su Canale 5 – mi avevano fatto capire che “noi siamo di qua, loro sono di là e basta” e che dopo tutti i traumi subiti il nostro rapporto non andrà mai oltre i vestiti, cibo o gioccatoli, comprati “oltre”. Era completamente inimmaginabile osare volere qualsiasi cosa di più.
Cultura e formazione senza radici locali
Anche mio papà, pur avendo “sfruttato alla grande” l’essere nato in questa zona di tamponamento, avendo imparato l’italiano nei minimi dettagli e diventando il traduttore dei maestri più grandiosi della letteratura italiana, sia classici che contemporanei, forse per il dolore trasmesso incosciamente dai suoi genitori, nel suo ambito lavorativo ha quasi interamente evitato il “suo” territorio, dedicandosi a un’Italia “vera e pura”, nei mondi di Dante, Petrarca, Calvino, Morante, Eco.
A scuola ho imparato ben poco dello spazio goriziano, delle sue particolarità, storia, geografia, gente… Ovviamente c’erano le lezioni sul confine di Rapallo, del ventennio fascista, della guerra, del Trattato di Parigi, c’era anche l’informazione più o meno generica sulle minoranze e le etnie. Per uno sguardo più intimo al territorio, per le sue ricchezze ed opportunità, dovetti cavarmela da solo. Non è questa una critica del sistema, semplicemente era così. È solo una riflessione del fatto che in quel periodo non eravamo ancora in grado di fare di più.
Ero un bambino curioso. Mi interessava un po’tutto, ed ovviamente anche che cos’era l’ “oltre”. Non solo nei limiti del cibo e jeans a basso costo da una parte e benzina e carne dall’altra. Quando ottenni il lasciapassare all’età di 12 anni cominciai a scoprire il nuovo territorio. In bici, a piedi, osservando tutto ciò che mi stava intorno. Lessi i libri, i giornali, le cartine geografiche, ovviamente imparai le cose anche dalla radio e TV. Scoprii che c’era il cinema anche a Gorizia, cosa che nessuno mi aveva mai detto prima. Pian piano ho scoperto anche come mai a Savogna d’Isonzo è scritto anche Sovodnje e perché Moraro è anche Morâr. Ho imparato la lingua italiana ed anche le basi del friulano. Ho conosciuto molte cose che la scuola non mi aveva dato. Con il ritardo di diversi anni ho cominciato anche a conoscere la gente dell’altra parte e fare nuove conoscenze ed amicizie. Con un po’ di ostinazione e curiosità mi si è aperta l’altra metà del mio mondo.
L’obiettivo vero dopo il 2025
Da qui parto per dire la mia sulla finalità più alta della Capitale europea della Cultura 2025. In primis, vorrei rinunciare alle interpretazioni della Capitale come un semplice teatro diffuso all’aperto dove sarebbero coinvolti artisti di vari generi facendo un po’ di spettacoli. Che la festa piace a tutti, lo sappiamo, no? Non vorrei sembrare offensivo o arrogante; è vero che il programma dovrà per forza essere composto da eventi che attraggano gente diversa e da più parti. Però, nonostante questo, gli eventi ed il progetto per sè devono avere un preciso e chiaro motivo. La nostra zona dovrà puntare ad un vero futuro comune dai vari punti di vista: artistico e culturale, turistico, scolastico, politico, economico, sanitario. Tutto questo non vorrebbe dire fare insieme i progetti isolati, separati, con tante parole e troppe telecamere, ma gestire i problemi principali insieme e con una strategia ed il “know-how” comune che comprenda tutte le aree citate: bisogna fare una zona libera dell’economia e del commercio con notevoli agevolazioni e benefici per gli abitanti ed eventuali investitori, per non parlare della collaborazione stretta nell’ambito scolastico, sportivo e turistico e tante altre cose. Questa è la base del collegamento vero che unisce la gente: si creano le relazioni sia personali che professionali, le amicizie, gli amori.
Dopo più di tre quarti di secolo, è arrivato secondo me il momento giusto per iniziare il percorso della ricucitura del diviso. Tranne l’ovvio, cioè imparare entrambe le lingue, alle scuole tocca anche superare l’ostacolo, fino ad ora troppo alto anche per la politica: sapere insegnare e capire la storia del ventesimo secolo in un modo basato sui fatti e sulle ricerche scientifiche. I temi delicati dovranno essere discussi in tutta la loro complessità, non evitati e banalizzati, utilizzando solo i “fatti” in linea con l’attuale politica. Anch’essa, questo lo sottolineo, dovrà esprimersi su questo tema il più presto possibile in un modo chiaro, distanziandosi da qualsiasi tipo di provocazioni. La tematica transfrontaliera – dalla storia alla geografia alla civiltà – dovrà trovare il suo spazio nei curriculum di scuole del territorio, si dovranno intensificare gli scambi degli alunni e degli insegnanti, comprese le lezioni “ibride”. Si dovrà collaborare ai livelli dei club sportivi giovanili. Nonostante sia più complicato ed avrà meno successo, è da sperimentare questo genere di attività anche per gli adulti.
Se calato il sipario della Capitale europea della cultura si comincerà a fare le cose in questo modo, avremo fatto tutto.