L’Università ha mutato pelle, ma non è detto sia una buona notizia
Indice dei contenuti
La riforma dell’Università italiana (legge 240/2010, “Gelmini”) oltre tredici anni fa, ha ormai dispiegato i suoi effetti e modificato profondamente il sistema universitario. Ne parliamo per capire se la medicina, indubbiamente amara, abbia fatto guarire o meno l’ammalato. In realtà vorrei utilizzare questo spazio non tanto per una analisi a livello nazionale – per questo il lettore può trovare tra gli altri moltissimi contributi su Roars che tratta di politiche dell’università, della ricerca e della scuola – bensì per le conseguenze a livello locale, ovvero per l’Università del Friuli.
Come scrive appunto il prof. Baccini su Roars (1), la riforma Gelmini – il cui estensore ombra fu comunque l’attuale ministro Valditara – fu preceduta da una pesante campagna di stampa a partire dal 2005. Sui maggiori giornali uscirono diversi articoli che dipingevano l’Università come in mano a una corporazione di baroni schierati a difesa di docenti assenteisti, se non cialtroni. Ad esempio a novembre 2008, la buonanima di Berlusconi: «Basta baroni all’Università». Poi gli scandali nei concorsi, Raffaele Simone pubblica «Università dei 3 tradimenti», «Università malata e denigrata». L’economista Raffaele Perotti: «L’Università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama mondiale».
Altre voci, poco ascoltate, sostenevano al contrario che il problema principale fosse la carenza di finanziamenti adeguati. E infatti già allora i dati OCSE dicevano che per livello di finanziamento l’Italia era collocata agli ultimi posti. Ma questo fatto oggettivo fu ribaltato dai noti editorialisti, con la metafora dell’inutilità di pompare più acqua nella vasca per riempirla, se questa in realtà era bucata.
L’università e la ricerca nel mondo neoliberale
Tre interventi legislativi precedettero la legge 240/2010. La legge Moratti, nel 2005 (governo Berlusconi II), mise a esaurimento i ricercatori a tempo indeterminato (RTI), riducendo a due le fasce della docenza: una fissa della parte più retriva tra gli accademici. Il Ministro Mussi nel 2006 (Governo Prodi) spinse per la costituzione dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR), anche se il relativo regolamento giunse solo nel 2010 (Governo Berlusconi IV).
Il ministro Tremonti poteva restare fuori? Certo che no. Ed infatti, oltre a creare dal nulla l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) dotandolo di un finanziamento monstre completamente al di fuori del sistema universitario, introdusse una quota premiale per il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle università. Da quel momento le università entrarono in competizione tra loro. Spesso, una lotta per la sopravvivenza: la quota premiale del FFO, la cui proporzione aumenterà negli anni, non era infatti aggiuntiva come sarebbe stato logico aspettarsi, ma toglieva ad alcuni per premiare altri.
La teoria del “quasi-market”, che introduce la concorrenza nella pubblica amministrazione, disegnata dagli economisti neoliberali negli anni ’80(2) e messa in pratica dalla Thatcher e da Reagan, trova un terreno fertile nel mondo universitario e della ricerca, peraltro un fenomeno globale. ll mondo dell’editoria scientifica, che si è sviluppato recentemente in maniera incredibile, è una fertile sorgente di indicatori bibliometrici pronti per una applicazione. Un recentissimo saggio è fondamentale per comprendere questo enorme business(3).
Finanziamenti e carriere
Riprendendo quanto scrive il prof. Baccini, quota premiale, ANVUR e revisione profonda del reclutamento e progressione di carriera dei docenti sono gli elementi chiave dell’articolato di legge che Gelmini ha firmato. Buona parte della quota premiale viene oggi distribuita agli atenei sulla base degli esercizi periodici della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca) realizzati da ANVUR. Al momento siamo al quinto, per il periodo 2019-2022. La competizione tra atenei viene misurata da algoritmi sviluppati da ANVUR. A questi fini, rispetto alle pubblicazioni prodotte, solo quelle presenti sulle riviste scientifiche recensite da database internazionali (SCOPUS, Web of Science), vengono considerate. Al contrario, pubblicazioni di taglio tecnico, spesso molto utili per il mondo produttivo, lavori presentati in Atti di convegni, capitoli di libri e manuali scientifici non contano assolutamente nulla. Oggi infatti l’aggiornamento dei manuali universitari langue, perché tale opera – utilissima per la didattica – è una perdita di tempo per i ricercatori. Per non parlare di tutte quelle molteplici attività di taglio divulgativo, a valenza sociale e scala locale.
Se gli esercizi di valutazione ANVUR, focalizzati sui dipartimenti e non sul singolo docente, possono avere una qualche utilità per capire come evolve un dipartimento nel corso degli anni, il vero elemento deleterio è stato la legge 232/2016 (Governo Renzi, proprio lui), che ha ulteriormente rafforzato il meccanismo di finanziamento premiale, introducendo una vera e propria gara per entrare tra i cosiddetti “Dipartimenti di eccellenza”. A livello nazionale, una prima scrematura estrae 350 dipartimenti universitari, chiamati a scrivere un progetto di sviluppo. Ulteriormente selezionati 180 dipartimenti vincitori, questi si dividono 1,3 miliardi di euro per 5 anni. Un sacco di soldi, un futuro luminoso (per chi ce la fa).
Questa università può fare a meno del territorio
Quali conseguenze dunque hanno avuto questi interventi sull’Università del Friuli? Quali i possibili rischi? Per capirlo, andiamo alle fonti. La legge n. 546 del 1977, che all’art. 26 istituisce l’Università di Udine, afferma che la stessa “… si pone l’obiettivo di contribuire al progresso civile, sociale e alla rinascita economica del Friuli e di divenire organico strumento di sviluppo e di rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli”.
Qualche lustro dopo, il primo Statuto (ottobre 1993) dell’Università dopo la legge 168/1989 sull’autonomia, all’art. 1 recita: “L’Università degli Studi di Udine… promuove lo sviluppo ed il progresso della cultura e delle scienze attraverso la ricerca, l’insegnamento e la collaborazione scientifica e culturale con istituzioni italiane ed estere, contribuendo con ciò allo sviluppo culturale, sociale ed economico del Friuli”. Lo Statuto vigente, emanato nel 2015 riporta: art. 1. L’ Università degli Studi di Udine… è sede primaria di libera ricerca a libera formazione. Promuove lo sviluppo ed il progresso della cultura e delle scienze attraverso la ricerca, la formazione, la collaborazione scientifica e culturale con istituzioni italiane ed estere, contribuendo con ciò allo sviluppo civile, culturale, sociale ed economico del Friuli.
Confrontando i testi è evidente un riposizionamento: non c’è più l’obiettivo del 1977, rispetto alla tensione etica ed all’emozione del post-terremoto nella legge istitutiva. Con l’ultima versione dello Statuto sembra quasi che al Senato accademico importi sottolineare la libertà di ricerca e richiami lo sviluppo del Friuli solo per dovere.
Uno spazio per una Regione che voglia essere speciale
Come logico, per effetto della pressione competitiva, anche in Friuli i docenti-ricercatori sono portati a limitare al minimo qualsiasi attività non sia strettamente funzionale alla produzione di pubblicazioni recensite da SCOPUS o Web of Science, obiettivo che di solito si raggiunge più facilmente se il gruppo di ricerca è bello grosso e possibilmente internazionale. Quanto spazio e quanto tempo resterà per impegnarsi in un lavoro autonomo, “curiosity driven” come dicono gli anglosassoni, o che comunque punti a lavorare su scala locale per il progresso del Friuli?
Resta inteso che l’ateneo friulano nei suoi primi 46 anni di esistenza ha ben operato. Non fosse altro che per aver creato una piattaforma di alta formazione e di ricerca, capace di entrare in rapporto con istituzioni, imprese e cittadini. E soprattutto formando giovani laureati che si sono fatti spazio nel mondo.
Il messaggio che si vuole portare è che tutto questo va difeso, non è garantito per sempre. Soprattutto dopo l’evoluzione delle recenti normative di ispirazione neoliberale, passate in Parlamento senza alcuna vera opposizione. Nel contesto regionale, un nuovo ruolo della Regione rispetto alle due Università – gli economisti parlerebbero di “asset” sul territorio – sarebbe del tutto auspicabile, come anche una maggiore attenzione del mondo politico alle vicende e alle traiettorie delle università regionali.
1 ROARS – Return on Academic Research and Schools. www.roars.it
2 P. Dardot e C. Laval (2009). La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista. DeriveApprodi, 497 pp.
3 Luca De Fiore (2024). Sul pubblicare in medicina. Impact factor, open access, peer review, predatory journal ed altre creature misteriose. Il Pensiero Scientifico editore, 178 pp.