Il lavoro femminile, una risorsa da non sprecare
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Anche quest’anno il World Economic Forum ha pubblicato il Global Gender Gap Index, offrendoci una fotografia dettagliata della condizione femminile a livello mondiale. Si tratta di un indice composito, la cui scala è compresa tra 0 (assenza di parità) e 1 (piena parità), diretto a misurare i divari di genere prendendo in considerazione diverse macro-aree: partecipazione politica, opportunità economiche ed occupazione, salute, istruzione. Ebbene, se nel 2022, su 146 Paesi considerati, l’Italia si collocava ad uno sconfortante 63° posto, nella classifica 2023 siamo (ulteriormente) precipitati ad un davvero disonorevole 79° posto. Tanto più disonorevole, laddove si considerino i risultati degli altri Paesi europei; a parte il podio (da anni una sorta di affaire privée tra Paesi scandinavi, con qualche ‘incursione’ in passato da parte della Nuova Zelanda) che incorona – nell’ordine – Islanda, Norvegia e Finlandia, si segnala, ad esempio, che la Svezia è al 5° posto, la Germania al 6°, il Regno Unito al 15°, la Spagna al 18°, la Francia al 40°. Tra i trentacinque Paesi europei considerati dal WEF, l’Italia si colloca al trentesimo posto. Una evidente e clamorosa débâcle, frutto di risultati estremamente negativi in tutti gli ambiti presi in considerazione: la partecipazione politica ci vede al 64° posto (nonostante una donna sia Presidente del Consiglio dei ministri), l’istruzione al 60°, la salute al 95° e infine – cosa che in questa sede maggiormente interessa – per quanto attiene alle opportunità economiche ed all’occupazione femminile sprofondiamo addirittura al 104° posto.
Italia, colpita e affondata
Proprio quest’ultimo dato dovrebbe farci riflettere circa l’urgenza dei correttivi da adottare a fronte di un clamoroso spreco di talenti e potenzialità. In Italia, nel 2023, quasi una donna su due non ha un lavoro esterno alla famiglia; a livello nazionale risulta quindi ancora molto lontano l’obiettivo di un tasso di occupazione femminile pari ad almeno il 60%, che l’Unione europea aveva individuato quale target da raggiungere entro il 2010. Certo, potremmo dirci che, se guardiamo indietro nel tempo, alla fine degli anni Settanta del Novecento solo una donna su tre in Italia risultava occupata; e sicuramente, se guardiamo al Friuli Venezia Giulia, possiamo anche rilevare come la situazione appaia decisamente migliore rispetto al dato nazionale, con un tasso di occupazione delle donne che raggiunge attualmente quasi il 63%; tuttavia, la soddisfazione è subito temperata dalla presa d’atto che rimane comunque, anche nel nostro contesto regionale, un significativo divario nel confronto con l’occupazione maschile (che in Regione è pari al 75%). Inoltre, restiamo comunque lontani – sia a livello nazionale che regionale – dai risultati di molti nostri partners europei: si pensi solo che nei Paesi scandinavi si registra un tasso di occupazione femminile intorno all’80%, ma anche nella vicina Francia – che peraltro da moltissimi anni ha adottato significativi strumenti (tra cui, in materia fiscale, il quoziente familiare) e servizi a supporto della genitorialità – si registra un tasso di occupazione femminile pari al 70%.
La Regione migliora, però…
Il lavoro delle donne è, dunque, una preziosa risorsa ancora non pienamente né adeguatamente valorizzata. E anche laddove – come nella nostra Regione – meno accentuato appare il divario occupazionale, emergono comunque sempre degli elementi di disparità che richiedono un ulteriore impegno nell’adozione di misure correttive. Una recente indagine dell’Ires FVG, prendendo in esame il lavoro subordinato nel settore privato, ha evidenziato come le donne in Friuli Venezia Giulia guadagnino mediamente circa 9.500 euro all’anno in meno rispetto agli uomini. In un Paese come il nostro, che certo non brilla nel quadro europeo in termini di livello medio dei salari, un simile dato è la risultante di un complesso di fattori che, anche nella nostra Regione, evidenziano le difficoltà nella condizione di chi, come avviene per molte lavoratrici, nel mercato del lavoro trova, già sulla linea di partenza, maggiori ostacoli. Si pensi solo alle carriere spesso ‘spezzate’ delle donne, che in misura maggiore degli uomini si fanno carico anche del lavoro familiare di cura e, dunque, più dei primi sono soggette nel mercato del lavoro a ripetute uscite ed ingressi; al ‘dispari’ carico di cura, consegue poi anche una maggior incidenza del ricorso al lavoro part time (in Italia, più di 9 part-timers su 10 sono donne), che per molte lavoratrici è una scelta necessitata, in assenza di adeguate infrastrutture sociali (asili nido, centri estivi, servizi di doposcuola, servizi di cura per le persone anziane e/o disabili, ecc.), che siano economicamente sostenibili e quantitativamente e qualitativamente adeguate. Lavoro ad orario ridotto significa però anche salario ridotto, oltre a minori (se non nulle) prospettive di carriera, in un contesto nel quale già a livello generale le donne incontrano maggiori difficoltà nell’accedere ai profili apicali (non solo nelle aziende private, ma anche nella pubblica amministrazione). Tutti questi elementi, ai quali deve aggiungersi anche una maggior incidenza sulla componente femminile di forme di lavoro instabile e precario, impattano inevitabilmente in modo significativo sulla misura finale del divario salariale di genere (il c.d. gender pay gap). Le donne, infine, risultano ancora poco presenti proprio in quei settori emergenti – quali l’economia green, la transizione energetica, la trasformazione digitale – che assumeranno un peso sempre più rilevante e sui quali, tra l’altro, si concentrano e si concentreranno molti investimenti legati all’attuazione del PNRR, offrendo prospettive occupazionali importanti.
Per contrastare stereotipi e discriminazioni i correttivi ci sono
Come è evidente, i correttivi possibili sono chiamati dunque ad operare su molteplici piani: tecnico/giuridico, economico, culturale; in primo luogo, certamente è necessario un aumento dei servizi di sostegno alla genitorialità ed alla cura, che va sempre però coniugato anche con adeguati investimenti con riguardo all’accessibilità economica degli stessi; indispensabile appare poi l’attenzione alla qualità del lavoro e delle carriere delle donne, contrastando forme di segregazione verticale ed orizzontale che possono incidere negativamente sulle possibilità e sulle prospettive occupazionali delle stesse; inoltre, bisogna impegnarsi – in prima battuta a livello di orientamento verso i percorsi scolastici ed universitari – per la promozione di una maggior presenza femminile nei percorsi di studio STEM (l’acronimo inglese, ormai entrato nell’uso comune anche da noi, si riferisce alle lauree scientifiche in alcune aree specifiche: Science, Technology, Engineering, Maths), al fine di aumentare la presenza delle donne nei settori e nelle carriere particolarmente coinvolti nell’evoluzione verde e digitale, che anche in futuro avranno un ruolo trainante.
Si tratta di interventi che chiamano in causa in primis i decisori politici, non solo a livello nazionale, atteso l’importante ruolo riservato alle Regioni in materia di mercato del lavoro e sostegno all’occupabilità e all’occupazione, ma che impongono pure un cambiamento culturale, che deve investire il mondo delle imprese, non sempre attente a valorizzare adeguatamente, fin dalle scelte di reclutamento, le competenze femminili. Bisogna perciò agire per svelare e contrastare tutti quegli stereotipi e pregiudizi che continuano ad operare nella nostra società, a volte in modo strisciante e ‘sotterraneo’, e che, di fatto, non di rado ostacolano le scelte lavorative, limitano le prospettive occupazionali e rallentano le possibilità di carriera delle donne.
Servono dunque fatti ed azioni concrete, non più (sole) parole.
Inoltre, se è indispensabile dedicare tutta la necessaria attenzione ad una risorsa – il lavoro femminile – che il nostro Paese (e la nostra Regione) non possono permettersi di sottoutilizzare o, ancora peggio, di sprecare, allo stesso tempo bisogna rendersi conto che agire attraverso la leva dell’aumento e della qualità dell’occupazione femminile potrebbe apportare utili correttivi pure su un altro piano, parallelo e non meno rilevante: quello cioè della preoccupante dipendenza economica delle donne italiane. Si pensi solo che, nel nostro Paese, ben quattro donne su dieci non sono titolari di un proprio conto corrente, tre su dieci non hanno un reddito individuale sufficiente, ben due su tre non sono autonome nel gestire il budget familiare (o personale), dovendo chiedere/rendere conto ad un uomo. E cosa questo significhi laddove, ad esempio, una donna voglia sottrarsi ad una situazione di violenza domestica ci sembra risulti del tutto evidente e non richieda particolari sottolineature. Ma sul tema di tale dipendenza, che talora può trasformarsi in vera e propria ‘violenza economica’, avremo modo di tornare in un prossimo contributo.