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Numero 26 | 17 Gennaio 2025

opera costato fotografia
Foto di Cristina Maraffi

Guerrino Dirindin e le parole della terra


Nel 1950 Sebastiano Dirindin si vide costretto a chiudere oltre quattrocento anni di storia della famiglia, rinunciando al trasporto fluviale sul Noncello.

Non fu solamente la fine di un lavoro, ma di un modo di vivere: i burchi, così si chiamavano le barche costruite per il trasporto fluviale, violavano l’acqua delle lagune, dei canali e dei fiumi da quando il sole sorgeva al tramonto e risalendo navigavano trascinati da cavalli e buoi dalle rive, se il tempo lo permetteva. La vita trascorreva sull’acqua, con ritmi e suoni che si accordavano con quelli naturali. Nulla era romantico e tantomeno facile, anzi: vita dura, un lavoro faticosissimo. Quando nel 1950 la Capitaneria di Porto di Venezia lo autorizzò a disarmare il burchio, Sebastiano lo fece da solo: come quei coniugi o quei figli che vogliono essere lasciati un’ultima volta soli a lavare il corpo di un loro caro mancato. Doveva ricavarne legna da ardere da vendere, per sopravvivere un po’. Coi chiodi estratti inscenò una sorta di cerimonia destinata e rimanere indelebile nella mente del figlio Guerrino: lo portò nella vigna di famiglia e per ogni piede di vite seppellì qualche chiodo. Quel che era rimasto della barca venne così unito alla terra, destinati insieme a dare frutto. Quel momento cruciale resterà impresso per sempre nella mente di Guerrino.

La vita e la necessità di dare pane alla famiglia portarono Sebastiano prima a fare il bracciante agricolo in Svizzera, poi in Zanussi a Porcia. Furono cambiamenti difficilissimi da accettare: finita ogni autonomia, gli orari della fabbrica non tenevano in alcun conto il giorno e la notte o il sole, la pioggia e la neve, il caldo e il freddo. Si stava alla catena e il primo turno iniziava col buio, l’ultimo finiva la sera tardi. C’erano persone che lavoravano solamente di notte. Quasi nessun suono naturale era percepibile.

Poi la Zanussi toccò anche a Guerrino e furono per lui anche gli anni dell’impegno sindacale e politico, delle 150 ore per conquistarsi la licenza media. Quella fabbrica non solamente negava ogni ruolo alla natura, ma anche alla creatività umana e la catena non era simbolica. Guerrino mostrava, però, un temperamento ribelle, eredità di una famiglia che è lui stesso a descrivere come indocile e viene spontaneo pensare che fosse a causa della difficile vita sui burchi. Aveva presto sviluppato una passione per l’arte e quella creatività non era solamente uno sfogo alle frustrazioni del lavoro. Presto iniziò a coltivare un sogno: per svilupparla doveva lasciare la fabbrica e ritrovare il rapporto con la natura in cui la sua famiglia aveva vissuto per secoli.

Nel 1986 si licenziò dalla Zanussi per dedicarsi solamente all’arte.

Il desiderio che provava di vivere secondo ritmi antichi portò progressivamente Guerrino a vivere le straordinarie forze che animavano la natura come una parte stessa della sua arte: dissolvevano le costruzioni fatte coi legni dei salici che nascevano spontaneamente sulle rive del fiume e che collocava lungo le vie della città e le strade che conducevano a Pordenone. Sembravano schiene di animali risorti dalla terra, di cui si intravedevano la colonna vertebrale e le lunghe costole. Per conservare queste deboli costruzioni di legni fragili decise di suturarne le ferite col fango e infine abbandonarle, convinto che il loro processo di deperimento naturale sarebbe stato interessante tanto quanto la realizzazione. Pochi anni dopo quelle stesse forze della natura si manifestarono nella terra in cui un soldato morente immergeva gambe, braccia e volto, mostrando nella colonna vertebrale inarcata e nella torsione della schiena un estremo tentativo di trovare rifugio e, forse, consolazione. Le ritrovò poi nei costati umani di cui, questa volta di fronte, oggi scorgiamo le plastiche del dissolvimento delle carni che lasciano scoperte una volta ancora la colonna vertebrale, le costole, le vertebre. È impossibile non scorgere in quelle opere un richiamo al Crocifisso. Ancora: quelle stesse forze naturali venivano richiamate dai totem tratti da tronchi alti anche cinque metri con cui innalzava i costati, quasi in una offerta. Quel legno, come fu per gli indiani d’America, era un tramite fra la vita sulla terra e quella in cielo, lo stesso significato attribuito alla croce.

Infine Guerrino fece superare alla natura il ruolo di fornitrice dei materiali usati per la sua arte creativa. A cavallo fra vecchio e nuovo millennio iniziò a fare della terra il materiale fondamentale della sua produzione artistica.

Cominciò a raccoglierla nelle basse di Vallenoncello oltre l’argine e nelle campagne di Caneva, dove ricercava tonalità diverse, ferrigne e rossastre. Anche oggi, dopo averla portata nella casa-atelier di Vallenoncello, toglie alla terra le impurità e, separata anche dai pochi sassi, la fa seccare per una prima volta al sole. Poi la sgrana e purifica nuovamente, la setaccia officiando uno strano ed antico rito durante il quale sembra danzare. Sostiene che in quei momenti la ascolta parlare in una lingua misteriosa. Poi la mescola a colle naturali, la stende su tavole di legno e la modella con le dita, disegnando soprattutto linee curve. Infine la conduce ad un nuovo, ultimo incontro col sole, che con la luce e il suo calore la disseccherà fino a spezzarla. I cretti che così si creano hanno parte essenziale nelle sue opere e sono frutto del lavoro della stella. Guerrino non incide in nulla in quei momenti cruciali, lascia che la forza straordinaria e incontenibile del sole definisca la forma finale dell’opera, che a quel punto non è più solo sua.

Le curve di terra sono la continuazione delle costole e delle vertebre dei decenni artistici precedenti e sembra quasi che quelle linee curve risultino incontenibili nelle forme geometriche delle tavole a cui sono aggrappate. Liberate da volontà umane, paiono voler abbracciare l’intero pianeta.

Questo processo artistico, attribuendo ad ogni manifestazione della natura un’anima, costruisce una nuova sacralità della vita biologica che la terra sintetizza e favorisce. Nell’incontro sincretico con la tradizione cristiana e i suoi simboli si manifesta il complesso messaggio di Dirindin.

Venerdì 15 marzo a Pordenone “Racconti di terra e di fiume. Guerrino Dirindin, le sue opere e il Noncello”

Sarà inaugurata venerdì 15 marzo, alle 18, nella Galleria Harry Bertoia di Pordenone la mostra “Racconti di terra e di Fiume. Guerrino Dirindin, le sue opere e il Noncello”, promossa dalla Fondazione Ottone Zanolin e Elena Dametto in collaborazione con Comune di Pordenone, Crédit Agricole Italia, Fondazione Friuli e l’Istituto Scolastico Parificato Elisabetta Vendramini e con il sostegno della BCC Pordenonese e Monsile. Opere di Dirindin saranno esposte anche a Pordenone in Palazzo Cossetti e nella Biblioteca Civica e a Vallenoncello nell’antica casa dei Dirindin in via del Cuch. L’entrata è libera. Preparata da un vasto gruppo multidisciplinare e resa possibile da decine di preziosi volontari, la mostra è curata da Fulvio Dell’Agnese e coordinata da Luca Marigliano con Gianni Zanolin. Accanto alle opere vengono presentare le ricerche storiche di Giovanna Frattolin sulla famiglia Dirindin dal Seicento ai giorni nostri, di Alessandro Fadelli sulle altre famiglie di trasportatori fluviali che operavano fra Pordenone e Venezia e di Moreno Baccichet sui progetti mai realizzati che accompagnarono la fine del trasporto fluviale sul Noncello. Preziosi documenti originali inediti saranno esposti nella Galleria Bertoia. Il catalogo è edito da Forum. Esposizioni ed eventi collegati si concluderanno domenica 19 maggio. La mostra sarà aperta il lunedì di Pasqua, il 25 aprile e il primo maggio. Per orari, informazioni, visite guidate e prenotazioni info@eupolis.info  www.eupolis.info

opera in terra foto maraffi
Foto di Cristina Maraffi
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Foto di Cristina Maraffi
opera costato fotografia
Foto di Cristina Maraffi

Gianni Zanolin

Gianni Zanolin è nato e vive a Pordenone. Per dieci anni Assessore alle Politiche sociali della sua città, ha sempre coltivato una passione per i libri e la scrittura. I suoi due ultimi lavori sono “Il senso del limite” (Rizzoli) e “Il peso del perdono” (Morganti). Presiede la Fondazione Ottone Zanolin e Elena Dametto, istituita dalla sua famiglia per sostenere gli studi universitari di studenti della provincia di Pordenone e promuovere la produzione e fruizione culturale. 

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